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Escape from Pretoria

2020
REGIA:
Francis Annan
CAST:
Daniel Radcliffe (Tim Jenkin)
Daniel Webber (Stephen Lee)
Ian Hart (Denis Goldberg)

Il nostro giudizio

Escape from Pretoria è un film del 2020 diretto da Francis Annan.

La riverniciata di impegno nasconde a fatica la purezza becera da film di genere che caratterizza Escape from Pretoria. Il cinismo con cui una pagina drammatica e significativa di storia contemporanea come la lotta politica contro l’Apartheid sudafricano viene sistematicamente smontata di ogni  spessore, riportandola spietatamente alla materia prima dell’intrattenimento pop, dimostra un cinismo al limite del nazisploitation. La Storia altro non è se non una scacchiera fantasy su cui disporre i pezzi di un racconto di suspense; pretesto ricattatorio e niente di più. Un’incoscienza che avrebbe anche potuto dare seri problemi agli autori, se la demenza dei loro intenti non fosse così giocosamente esplicitata. La storia vera di Escape from Pretoria (con tanto di foto di repertorio nei titoli di coda ad omaggiare i veri eroi, come nei film di Peter Berg), vede la coppia di studenti Tim Jenkin (Daniel Radcliffe, ottimo) e Stephen Lee (Daniel Webber) imprigionati dopo un innocuo atto di pseudo-terrorismo sovversivo. Colpiti con il massimo della pena da un caricaturale sistema giudiziario di macchiette razziste e nazistoidi, finiranno sepolti nel carcere di massima sicurezza per prigionieri politici che dà il titolo al film. Lì il rocambolesco piano di fuga dei due coinvolgerà ideologicamente tutti gli ospiti della struttura. Un piano talmente assurdo da poter solo essere vero: costruire chiavette di legno per ogni singola porta dell’istituto. E uscire dall’ingresso principale, semplicemente aprendo il cancello.

Il contesto da cui il film prende le mosse è talmente pretestuoso che se il progetto fosse partito in ambiente hollywodiano (anziché essere un low-budget anglo-australiano) non si sarebbe risparmiato qualche accusa di “problematicità”. Per essere un film sull’Apartheid, sulla crudeltà inumana di un sistema fuori dal mondo e dal tempo come quello Sudafricano negli anni di Biko e Mandela, e dedicato esplicitamente alla memoria di quanti l’hanno combattuto… Escape from Pretoria è il film più “bianco” che si potesse fare. Le effettive vittime del regime condannato non hanno voce né volto. Sempre evocate, ma escluse persino dai ruoli più secondari. Al loro posto, un’intero carcere di buoni white savoir, spesso ritratti anche come mezzi cretini; se il razzismo e la segregazione esistono, sono problemi lontani, e il confronto con essi è inscenato esclusivamente da divi anglosassoni. La resa ultra-farsesca dei caratteri rende impossibile rapportare Escape From Pretoria all’impegno civile che in teoria sbandiera. Dagli sputazzanti e ridicoli sbirri, praticamente parodie in scia a John Cleese o al Michael Bates di Arancia Meccanica, agli stessi “eroi” protagonisti (due studentelli incapaci persino di lanciare volantini per strada senza essere beccati al primo tentativo), lo script aggira persino il prison movie anni ’60 alla John Sturges, e arriva direttamente dalle parti del cartoon Hannah & Barbera.  Più che Schlinder’s List, sembra una versione in divisa di Animal House.

Come a confermare dove risiedano le vere ambizioni del regista (nero) Francis Annan, il suo racconto dell’evasione è invece magistrale. Lo aiuta un materiale di partenza talmente assurdo da schivare con stile ogni forma di paragone con film passati; niente tunnel, maschere, condotti di areazione, tutto l’armamentario iconografico del genere immaginato dai vari Eastwood, King, Parker. La fuga tramite chiavi, alla luce del sole, stringe il campo in un racconto fatto di dettagli, primissimi piani, gocce di sudore, rughe e palpitazioni. Di contro, brilla un meticoloso lavoro di resa degli spazi: Pretoria non è Alcatraz o Shawshank, ma una catapecchia di mattoni e sbarre arrugginite, bruciata dal sole africano e sorvegliata da manovali della repressione obesi e sudati. La sua estensione conta tre set (un corridoio, una rampa di scale, un cortile), che esplorati dagli zoom diventano enormi, contorti, come un campo di battaglia. Nella sua resa dell’improbabile conflitto etico, Escape from Pretoria scopre a sorpresa anche una sorta di profondità tematica, a nobilitare il formalismo puro del film d’evasione. La resistenza politica passa nei micro-gesti del quotidiano, nella riappropriazione testarda dello spazio militarizzato; la geografia stessa dell’ambiente carcerario è trasformata in terreno di scontro, piegato dall’astuzia e l’incoscienza dei “buoni” ai danni della rigidità caricaturale dei villain. Quindi, il perfetto cinema di denuncia per chi odia il cinema di denuncia; puro sfruttamento exploitation del dramma storico, dove la tensione è nel montaggio, nella suspense, e rigorosamente tra le righe. Un validissimo saggio sulla gestione del budget minimo. L’arrivo del Coronavirus in America ne ha mandato a monte la timida uscita in sala: ma quando mai film così ne hanno avuto bisogno?