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Enforcement

2020
Titolo Originale:
Shorta
REGIA:
Frederik Louis Hviid, Anders Olholm
CAST:
Jacob Lohmann (Mike)
Simon Sears (Jens)
Tarek Zayat (Amos)

Il nostro giudizio

Enforcement è un film del 2020, diretto da Frederik Louis Hviid e Anders Olholm.

Anche la Danimarca, sotto un’apparenza di quiete e pacifismo, nasconde un magma di violenza sempre pronto a esplodere, quel “fango bollente” di cui parlava il regista Vittorio Salerno nel 1975 con l’omonimo film. Ne sono consapevoli i registi Frederik Louis Hviid e Anders Olholm, che scrivono e dirigono il dramma poliziesco urbano Enforcement, presentato l’anno scorso a Venezia alla Settimana Internazionale della Critica: un film ispirato a un fatto di cronaca, e che nel suo titolo originale, Shorta – cioè “polizia” in arabo – contiene il quid della vicenda. Enforcement fa parte infatti di quel tipo di cinema che mette in scena e disseziona la violenza nella società contemporanea, in particolare nelle città, coniugando lo spettacolo filmico con la riflessione sui temi più scottanti: la criminalità e l’insicurezza dilaganti, la difficile convivenza tra etnie, gli abusi della polizia, materia di analisi sociale in tutto il mondo. Limitandoci al cinema europeo, si è parlato a lungo dell’italiano ACAB, o recentemente di due opere acclamate dalla critica, il francese I miserabili (a sua volta figlio de L’odio di Kassovitz) e la serie-tv spagnola Antidisturbios: un nucleo di film a cui si aggiunge l’altrettanto riuscito Enforcement, un film brutale, potente e straniante per l’ambientazione insolita. Ci troviamo infatti in una città danese, dove la tensione sociale è altissima per un fatto di sangue: due poliziotti hanno picchiato selvaggiamente Talib, un ragazzo arabo, durante l’arresto, ferendolo gravemente.

La polizia è in allerta per le possibili rappresaglie, in particolare nel quartiere dove viveva il giovane, e la storia segue le vicende di due agenti – Mike (Jacob Lohmann) e Jens (Simon Sears) – che sono di pattuglia in città. Dopo aver arrestato Amos (Tarek Zayat), un altro ragazzo arabo che ha compiuto un atto vandalico, giunge la notizia della morte di Talib, e la violenza esplode ovunque: la loro auto è presa a sassate e distrutta, per cui i due poliziotti devono nascondersi e proseguire a piedi, facendosi guidare dal giovane fermato. Il viaggio per rientrare alla base è pieno di insidie e agguati, e il pericolo fa emergere il carattere diverso dei due: dopo una violenta colluttazione, i due agenti si separano, e ciascuno deve sopravvivere per conto suo. C’è chi ha tirato in ballo registi come John Carpenter (per Distretto 13) e Walter Hill (per I guerrieri della notte), ma le somiglianze si limitano al modello narrativo – la violenza urbana, l’assedio, la fuga – poiché Enforcement si distanzia totalmente dall’exploitation, per mettere in scena qualcosa di terribilmente reale: è sufficiente leggere la trama per capire come Shorta sia un tragico specchio della situazione sociale europea e americana, tanto di oggi quanto di ieri. Attenzione però, il nostro film non vuol farsi cinéma vérité, bensì cercare una difficile (ma riuscita) quadratura del cerchio fra rappresentazione della realtà e messa in scena spettacolare, grazie a dialoghi non banali e scene d’azione e violenza dirette in modo solido. Emerge innanzitutto quello spirito di cameratismo e fratellanza nella polizia che puzza tanto di estrema destra: l’azione delle forze dell’ordine è messa in scena in tutta la sua crudezza (vedasi la brutale scena iniziale dell’arresto), ma la regia rifugge dal facile manicheismo fra buoni e cattivi, per ricreare una realtà complessa dove la violenza assume dei contorni universali a cui nessuno può sfuggire.

È particolarmente illuminante, in tal senso, una frase rivolta a Mike dalla madre di Amos: “Se ti trattano come se fossi il cattivo, finisci per diventarlo”. Il film denuncia sì gli abusi della polizia, ma non fa sconti a nessuno. La polizia picchia, spara e uccide, ma anche le azioni dei rivoltosi sono altrettanto violente: basti pensare alla bottiglia molotov lanciata contro un’auto della polizia (all’improvviso, quando meno te lo aspetti, a testimonianza di una regia ispirata), o al crudele pestaggio a calci, pugni e bastonate verso Jens, poi salvato da Amos. Perché Enforcement è anche il racconto di rapporti umani in divenire, che fanno capolino fin dal carattere diverso dei due poliziotti: Mike è il più cattivo e razzista, mentre Jens ha degli scrupoli, poiché era presente all’arresto di Talib e ora deve fare i conti con la sua coscienza. Fra loro scoppia un cruentissimo scontro corpo a corpo in un bagno pubblico (anche qua, girato magistralmente e con guizzi di inventiva), che conduce i due per strade diverse: Jens fugge con Amos (e finiranno per aiutarsi a vicenda), Mike per conto suo, per poi ricongiungersi in un finale particolarmente amaro. Regia e sceneggiatura sono solide e imprevedibili, e Hviid e Olholm dirigono le scene d’azione nei modi più disparati e con vari espedienti narrativi, tra assedi, fughe e scoppi di violenza improvvisa in quartieri malfamati, fino allo scontro a fuoco col mitra. La regia è supportata da una fotografia (sia diurna che notturna) non appariscente e improntata al realismo, un montaggio sincopato e una colonna sonora che vibra e pulsa insieme ai personaggi, incarnati visceralmente da attori non famosi ma coi volti e i modi giusti.