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Ecce Homo: i sopravvissuti

1968
Titolo Originale:
Ecce Homo: i sopravvissuti
REGIA:
Bruno Gaburro
CAST:
Philippe Leroy (Jean)
Irene Papas (Anna)
Gabriele Tinti (Len)

Il nostro giudizio

Ecce Homo: i sopravvissuti è un film del 1968, diretto da Bruno Gaburro

«Non era ancora il momento». Glielo disse Marco Ferreri a Bruno Gaburro, come egli stesso afferma nella lunghissima intervista apparsa sul dossier n.51 di Nocturno in cui si lascia andare, tra l’altro, a una ricchissima serie di aneddoti sulla realizzazione di Ecce Homo: i sopravvissuti. Tale ricostruzione, oltre a darci un saggio esemplare su come l’aneddotica del dietro le quinte del cinema di genere sia cinema speculare a quello che poi appare in definitiva sullo schermo, evidenzia, se ce ne fosse ancora stato bisogno, come il film di Gaburro appartenga a una schiera ristrettissima di pellicole che possiamo considerare un unicum, prendendo atto del rapporto che intercorre tra l’argomento trattato e il periodo storico/cinematografico (mercato, società, generi) in cui il film viene realizzato, senza tralasciare la difficile reperibilità della pellicola che non possiede, a oggi, alcuna edizione per l’home video, essendo affiorata raramente dal magma delle tv private (una volta sicuramente agli albori degli Ottanta, quando lo stesso Gaburro la intercettò durante la notte) e dagli schermi di qualche rassegna per poi tornare nell’oblìo, circostanza che concorre, per l’appunto, a definire ulteriormente il suo status di “estraneità”. L’adesione a un tema come l’olocausto nucleare e le sue fasi immediatamente successive, mentre aveva una solida tradizione nel cinema americano per ovvi motivi politici, culturali e sociali, figurava all’interno del cinema italiano come la bizzarria di un giovane autore a cui, in più fasi, era stato suggerito di ritornare sulla retta via, che poi era quella dei generi imposti in quel momento dal mercato. E forse incosciamente qualcosa di quei generi (western in particolare), che in quella fase storica componevano i libri del Vangelo dei produttori, soprattutto i più scalcinati, del cinema italiano di genere (e non), rimase nel film di Gaburro se è vero come è vero che egli sottolineò con una violenza concreta, tipica di strutture sociali in cui la forza del singolo ancora è in grado di soverchiare in maniera sistematica la giustizia di comunità (come appunto nella “civiltà western”) vicende intrise di un nichilismo assoluto analogo a quello che Ferreri pompa nel film “gemello” (nell’idea, non certo nel progetto di un “percorso” come quello ferreriano) Il seme dell’uomo, in cui la violenza, anche quando produce risultati concreti, possiede consistenza metaforica e grottesca.

Genesi di questa violenza è il contrasto che nasce all’interno del nucleo familiare composto da Jean (Philippe Leroy), Anna (Irene Papas) ed il figlio Patrick (Marco Stefanelli) quando i tre, scampati alle conseguenze di un conflitto nucleare e arrangiatisi a vivere in una porzione di spiaggia in cui gli unici residui di civiltà sono una roulotte, un camioncino, una barca ed una carcassa d’automobile, vengono a contatto con altri due sopravvissuti, Quentin (Frank Wolff), scienziato, e Len (Gabriele Tinti), giovane militare. Il corto circuito generato dal contrasto tra nuovo (dis)ordine sociale e pulsioni individuali sfocia, seppur nell’ambito di una catalogazione troppo schematica dei caratteri (l’impotenza della vecchia umanità, la scienza, i militari, la donna/riproduttrice, il bambino/vittima innocente), nello scontro tra Jean ed Anna che, come Cino e Dora nel film di Ferreri, incarnano tendenze antitetiche di pulsione autoaccusatoria ed autodistruttrice e istinto di sopravvivenza e prosecuzione. Nel superamento del contrasto tra i coniugi, avvenuto con l’uccisione dell’impotente Jean per mano di Len, Gaburro, in Ecce Homo: i sopravvissuti, mette in moto un processo che va a mimare il ciclico ripetersi degli errori della civiltà, l’assurdo utilizzo della violenza, l’inevitabile cammino verso l’autodistruzione; è Jean che vive in prima persona il turbamento di un equilibrio alterato ed il rifiuto totale dell’idea di prosecuzione («E perché dovremmo? A cosa serve la civiltà?» esclama durante una discussione con Anna) ma è tra Len e Quentin che si consuma lo scontro finale tra le rocce e i deliri dello scienziato, il quale ribalta inaspettatamente un epilogo apparentemente scontato.

Ed ecco la ciclicità che si concretizza: adesso è Anna che, minata della propria nuova felicità (passioni, rapporti sessuali: «Non mi importa! Oggi ho fatto l’amore e mi piaceva! Si! Mi piaceva!», Anna a Jean), si rende conto della crudeltà di un mondo in cui nessuna chance viene lasciata dalla natura stessa dell’essere umano. Morto Len, non ha più nessun senso vivere, come non lo aveva per Jean. Tanto meno sostenere la responsabilità della prosecuzione della civiltà. Il retrogusto di “parabola” che possiede Ecce Homo: i sopravvissuti forse non era nelle intenzioni di Gaburro, sicuramente limitato in queste dalle possibilità economiche di un progetto autofinanziato anche dagli attori, tuttavia esso possiede un pragmatismo di genere che comprende sesso, polvere e sangue, una naturalezza vivida, essenziale, che si concretizza soprattutto in un paio di scene, come l’amplesso marino tra Len ed Anna, nudi in mare e sulla spiaggia, accompagnati dalla suadente colonna sonora di Ennio Morricone, e la già citata scena del duello a colpi di pistola tra le rocce del deserto, fisico e morale. Realismo e simbolismo dunque, miscibili in Gaburro nella misura in cui intenzionalità e necessità si intersecano inconsapevolmente alla ricerca di un risultato da portare a casa. Che rimane sempre e comunque il sacro Graal del cinema di genere.