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Earwig

2021
REGIA:
Lucile Hadžihalilović
CAST:
Paul Hilton (Albert Scellinc)
Alex Lawther (Laurence)
Romane Hemelaers (Mia)

Il nostro giudizio

Earwig è un film del 2021, diretto da Lucile Hadžihalilović.

Si dice che dietro ogni grande uomo si nasconda spesso una grande donna. Ciononostante capita che, a volte, alcune di queste grandi donne si rivelino ancor più grandi dei grandi uomini dietro ai quali si celano. Roba contorta vero? Beh, almeno quanto il cinema esoterico, ipnotico e viscerale di Lucile Hadžihalilović. Una tipa davvero tosta che, lungi dal voler comodamente vivere alla lunga e ingombrante ombra del marito Gaspar Noé, con appena tre film in due decenni di carriera è riuscita a costruirsi una personalissima poetica nella quale, per sua stessa ammissione, il non detto e il non spiegato acquistano un valore più che mai assoluto. Un’ossessiva fascinazione verso gli insondabili buchi neri della narrazione e le mille sfocature del significato che, tanto nell’alchemico giardino delle trentacinque giovani vergini non ancora suicide protagoniste di Innocence che fra i lovecraftiani flutti della mutevole (e mutante) comunità marina di Evolution, rendono ogni sua opera una conturbante e indimenticabile esperienza di visione. Ed è appunto un film essenzialmente esperienziale Earwig; qualcosa da vivere sulla pelle ancor prima che negli occhi. Un qualcosa da esplorare come una deambulazione situazionista priva di specifiche coordinate, così come un videogioco open world nel quale ciò che realmente conta non è seguire il filo di una storia ma perdersi all’interno un intero universo. Ed è appunto un visionario e ben circoscritto universo sensoriale quello che la regista franco-bosniaca sceglie di apparecchiarci sin dalle primissime inquadrature. Un mondo cupo, umido e diroccato che pare uscito da un incubo surrealista est europeo di Jan Švankmajer, nel quale i toni giallognoli e marroncini di una decadenza quasi post bellica ci restituiscono un perturbante senso di marcia e polverosa inquietudine.

È proprio in questo mondo kafkiano fatto di pochissime parole e tanti rumori che, all’interno di un enorme e sinistro caseggiato che pare ospitare gli stessi brechtiani spettri dell’insondabile Hotel Poseidon vive il misterioso Albert (Paul Hilton), feticisticamente ossessionato dalle rifrazioni di luce emanate dalla sua collezione di bicchieri di cristallo e tormentato dai ricordi di un amore passato ormai scomparso, in perenne attesa di ricevere istruzioni telefoniche da parte di una non meglio identificata eminenza grigia conosciuta solo come “i padroni”. È lui a doversi prendere cura della piccola Mia (Romane Hemelaers), giovane fanciulla dotata, forse, di una qualche misteriosa proprietà ultraterrena – così come il mistico Niño de la luna di Villaronga – tale che la sua saliva viene raccolta in piccole ampolle da uno speciale apparecchio boccale per poi essere congelata e tramutata in un’inquietante dentiera di ghiaccio. Le giornate passano placide e monotone fra le oscure e scalcinate mura della casa-prigione, fissando gli insetti zampettare sulla scolorita carta da parati così come un misterioso quadro che, uscito forse da un racconto di Stephen King o direttamente dal carpenteriano Seme della follia, pare dotato di una propria vita. Ma ecco che un giorno, finalmente, il vecchio telefono a disco squilla portando con sé un perentorio ordine: preparare la preziosa bambina al mondo esterno e recapitarla alla sua definitiva destinazione. Il tutto mentre l’incontro forse non del tutto fortuito fra la cameriera Celeste (Romola Garai) rimasta sfregiata da un eccesso di rabbia dello stesso Albert e l’indecifrabile benefattore Lawrence (Alex Lawther) sembra preludere a una possibile circolarità dell’intero fumoso racconto.

C’è un qualcosa di profondamente lynchano all’interno di Earwing, a cominciare dal disturbantissimo particolare di quell’orecchio che accoglie lo spettatore allo scoccare del primissimo fotogramma, al pari del putrefatto e brulicante moncherino in apertura di Velluto Blu. Oppure il surreale incontro in osteria fra Albert e un perfetto sconosciuto che, un po’ come il mefistofelico Mistery Man di Strade perdute, pare saperla davvero lunga a proposito del nostro protagonista. Ma se in effetti la rareffata stasi che domina le quasi due ore della pellicola pare strizzare l’occhio alla sospensione atmosferica di Erashead, tra le righe è possibile scorgere anche un certo decadentismo che fa subito pensare ai fiabeschi universi infantili di un del Toro, così come il simbolico tuffo nello staglio di una Mia in cappottino scarlatto non può che riportarci alla mente il buon Roeg e il suo A Venezia.. un dicembre rosso shocking. Citazioni e influenze che si perdono tuttavia in un’opera estremamente criptica e personale, nella quale, così come per le sabbie mobili, più si cerca di venirne a galla più se ne viene irrimediabilmente trascinati a fondo. Laddove infatti il compagno Noé gioca a provocare il suo pubblico sovraccaricando baroccamente di strati significanti, la Hadžihalilović inverte la marcia e agisce invece in sottrazione, portandoci dunque a riempire da noi le lacune e gli interrogativi rimasti per lo più senza alcuna chiara risposta, come in un gioco nel quale non vi sono né vincitori né vinti. Chi sono i personaggi? Perché agiscono in questi termini? E ancora: qual è il vero significato di questo esoterico feticismo dentale? Forse, così come per la gotica Berenice di Poe o l’incubotico Denti di Salvatores, il singolo oggetto del feticcio si fa catalizzatore di una forza decisamente sovra-naturale. Oppure, più semplicemente, tutto non è altro che un sogno (o un incubo) di centocinquanta minuti pronto a dissolversi come una bolla di sapone un attimo dopo il brusco risveglio.