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Diario di spezie

2021
REGIA:
Massimo Donati
CAST:
Lorenzo Richelmy (Luca Treves)
Fabrizio Ferracane (Andreas Dürren-Fischer)
Fabrizio Rongione (Garrant)

Il nostro giudizio

Diario di spezie è un film del 2021, diretto da Massimo Donati.

Nato per essere un soggetto cinematografico, nel lontano 2006, quando vinse il Premio Solinas Giallonero, quindi diventato romanzo nel 2013 e finalmente giunto alla propria destinazione sullo schermo, oggi. L’autore è sempre il medesimo, Massimo Donati, milanese, classe 1973, strappato ai laboratori di fisica dal cinema e dalla scrittura. Diario di spezie è il suo primo lungo prodotto da Master Five Cinematografica ed è lecito sostenere che si tratti di un bel debutto, soprattutto poco allineato agli andazzi attuali italioti.  Definiamolo pure un thriller, ma con riserve, eccentrico, nel senso che si dipana lungo una trama, in qualche modo, gialla, dove però gli intrighi hanno a che fare con le anime dei protagonisti. Non storcete il naso, perché, ripeto, non si tratta della solita fumisteria “autoriale” indigena. Le prime sequenze, molto rarefatte e stilizzate, quiete, composte, geometriche, introducono alle dramatis personae, che sono un giovane chef, Luca Treves (Lorenzo Richelmy), di grande successo nell’arte sua culinaria, e tuttavia una personalità defilata, quasi timida. Nel corso di una manifestazione, costui incrocia la strada di Andreas Dürren-Fischer (Fabrizio Ferracane), restauratore di quadri fiamminghi (si è girato anche in Belgio, oltre che in Trentino), anch’egli un’auctoritas nel proprio campo, un cinquantenne esuberante, brillante, epicureo e mondano. Treves viene convinto a seguire il Dürren-Fischer in un tour, tra Germania e Austria, che potrebbe dimostrarsi utile ad ampliare il proprio orizzonte professionale (finora ha gestito il suo piccolo ristorante in quel di un’anonima Culonia), a farlo evolvere. I due, quindi, si mettono in macchina e in viaggio insieme.

La spina irritativa entra nel tessuto del racconto a misura che seguiamo un’altra figura, un ispettore di polizia, Garrant (Fabrizio Rongione) che sta da tempo indagando su un immondo porcaio, un ring internazionale di pedofilia, nelle cui spire è finita anche sua figlia, una bimba ingoiata anni addietro nel nulla. Garrant è sulle tracce del misterioso capintesta dell’organizzazione. Garrant tallona Dürren-Fischer. Il sillogismo facile e necessario è che Ferracane sia il “turpe individuo” (come scrivevano i cronachisti di nera, una volta) nel suo mirino. Ed è così, infatti: il “giallo” non sta certo su questo, ma ha a che vedere con l’interazione tra il giovane Richelmy e il suo compagno di viaggio, che lo introduce alla raffinatezza della propria cultura e, al contempo, denuda man mano quel che sta sotto, vorace, famelico, predatorio. Donati gioca con raffinatezza dosando i pesi sulla bilancia: l’equilibrio per quanto instabile dell’inizio (e lo si avverte subito che c’è qualcosa di estraneo, di alieno, di incolmabile, tra Treves e il Dürren-Fischer), si sposta sempre più a favore del caos. Luca avverte oscuramente e con vieppiù chiarezza che l’uomo che ha di fronte, della cui backstory criminale, non sa ancora nulla, esprime l’abisso. Le scene a tavola, di fronte a del cibo raffinato, mi pare siano una chiave di volta: Andreas non è un gaudente e basta, la sua attitudine dice qualcos’altro. Treves è lì lì a intuirne la natura di lupo.

Il titolo fa riferimento a un libriccino che Richelmy si porta dietro e sul quale annota le virtù di ogni spezia. Un recipe che, alla fine, si rivelerà anche la più micidiale delle armi, stando così doverosamente sul vago e non rivelando ciò che non va rivelato. Se è scontato dire che gli interpreti in una vicenda del genere sono tutto o gran parte del tutto (Ferracane ha il compito più arduo, perché doveva essere abilissimo, come abilissimo è stato, a giocare sui chiaroscuri, a danzare sul discrimine tra fascino e repellenza), assai meno ovvio è glorificare l’uso che viene fatto degli scenari, degli ambienti, della quinta geografica. Colpisce come la Natura non abbia nulla di empatico, niente di confortevole o idilliaco. Sta lì, “è”, mi viene da dire indifferente. E rappresenta una corroborazione perfetta alla durezza di acciaio delle cose umane. Donati fa parte di quei registi che hanno un approccio “freddo” a quel che narrano, che è un bel punto di merito, oggi, quando tutti vorrebbero essere simpatici ed empatici e si risolvono, sempre, invece, nella banalità e nell’ovvio. Raccontare di anime, non è facile, si rischia la retorica, il cerebralismo, il fumo senza arrosto. Diario di spezie, per restare nel perimetro della metafora culinaria, la carne la serve, invece, e cotta al punto giusto.

Ph.Credit: Francesca Fago