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Dead for a Dollar

2022
REGIA:
Walter Hill
CAST:
Christoph Waltz (Max Borlund)
Willem Dafoe (Joe Cribbens)
Rachel Brosnahan (Rachel Kidd)

Il nostro giudizio

Dead for a Dollar è un film del 2022, diretto da Walter Hill.

Dollari e morte. Sono questi i basilari e imprescindibili capisaldi di un genere fra i più antichi e longevi della storia del cinema, periodicamente dato per estinto ma sempre pronto, da un momento all’altro, a risollevare la testa e a tornare ferocemente di moda, un po’ come le zeppe e i pantaloni a vita alta. D’altronde si sa che il vero western, quello verace e ben fatto, non ha certo bisogno di barocchismi o stucchevoli svolazzii pindarici, quanto piuttosto di chiarezza, onestà e tostissima semplicità. Sarà forse per questo che un navigato veterano come Walter Hill, fra i più tosti e muscolari cineasti a stelle e strisce, giunto ormai nella fase crepuscolare della propria carriera ha sapientemente scelto di mettere da parte ogni residuale eccesso di testosterone per confezionare con Dead for a Dollar un cantico di frontiera vecchissima maniera. Ruvido, polveroso e asciutto proprio come gli epici e nostalgici racconti di pistole e mandriani firmati da quel fiero (e purtroppo in gran parte dimenticato) Budd Boetticher a cui la stessa pellicola non può che essere dedicata. Un film, a detta di molti, certamente fuori tempo massimo ma che, a cominciare dal suo stesso leoniano titolo, non fa mistero di voler prendere le distanze da qualsiasi rilettura postmoderna al sapore di pulp tarantiniano, preferendo piuttosto guardare dritta in faccia quella cara vecchia modernità che già a suo tempo aveva permesso alle ombrose logiche del neo-noir di cavalcare a briglia sciolta le assolate distese razziate da gringos e bounty killer. Il duro e navigato Walter riprende saldamente in mano la struttura del viaggio corale già affrontato dai suoi Cavalieri dalle lunghe ombre – e più di recente nella miniserie Broken Trail –per stringere ancora di più il focus della narrazione sui cinici e sfaccettati personaggi che popolano questo caleidoscopico Dead for a Dollar. Veniamo trasportati nell’accalorato deserto di Chihuaua, in quel del tutt’altro che caloroso New Mexico, dove il disincantato cacciatore di taglie gentiluomo Max Borlund (Christoph Waltz) riceve dallo spregiudicato affarista e politicante Mr. Kidd (Hamish Linklater) l’arduo compito di ritracciare e riportare a casa la di lui moglie Rachel (Rachel Brosnahan), apparentemente rapita dal soldato disertore afroamericano Elijah Jones (Brandon Scott).

Siamo ormai nel 1897 e la gloriosa corsa alla conquista delle selvagge terre dell’Ovest è ormai finita da un pezzo, ma nonostante ciò il nostro brizzolato assassino  silenzioso sceglie di solcare questi pericolosi e redditizi Sentieri Selvaggi con lo stesso spirito del dovere del virile John Wayne e grazie alla complicità del fido Poe (Warren S.L. Burke), commilitone del presunto rapitore e fiero soldato dello Zio Sam. Superato non senza difficoltà il confine messicano, il nostro Cavaliere della valle solitaria e il suo impavido braccio destro si troveranno tuttavia a dover affrontare una duplice mexican standoff: da una parte lo spietato proprietario terriero Tiberio Vargas (Benjamin Bratt), intento a tiranneggiare coi suoi scagnozzi sui pochi polverosi metri quadrati di una desolata città, e dall’altra nientemeno che Joe Cribbens (Willem Dafoe), incallito fuorilegge e giocatore d’azzardo pronto a regolare alcuni conti con lo stesso Borlund, vendendosi sfacciatamente al miglior offerente sulla piazza. Inutile dire che, ben prima dello scoccare del beneamato mezzogiorno, il fuoco delle pallottole inizierà a farsi sentire fra i cactus e le tane di scorpione, forse giusto in tempo per il primo sbuffo di locomotiva di quel maledetto Treno per Yuma. Letto retrospettivamente, Dead for a Dollar altro non è se non l’ultimo capitolo, almeno per ora, di un brulicante e poliedrico romanzo cinematografico scritto con il sangue e col sudore da un ancora tosto e pimpante cineasta che, nel corso di quasi mezzo secolo di attività, della poetica western ha fatto la materia primissima con la quale plasmare praticamente ogni suo più piccolo filmico figlioccio. Che sia quella urbana de I guerrieri della notte e Strade di fuoco, quella militar-poliziesca di Ricercati: ufficialmente morti e I guerrieri della palude silenziosa piuttosto che il crepuscolare (anti)eroismo individualista di Driver, Johnny il bello e Danko, il cinema di Hill è sempre stato e sempre sarà dominato dall’epica del più fieramente americano fra i generi, amato alla follia dal mentore Sam Peckimpah e dai suoi contemporanei in quanto capace come pochi di riflettere sui valori fondativi di un intero popolo e di forgiare tanto le coscienze individuali quanto e soprattutto quelle collettive.

Ma a differenza del classicismo dei capolavori (eticamente problematici a dire il vero) di Ford e di Hawks, lo scafato Walter sacrifica quasi interamente la sconfinata geometria degli ampi spazi canonici per rinchiudersi a tempo record nell’afoso e angusto perimetro della più tipica delle cittadelle fantasma, adottando la rivoluzionaria teoria fulciana dell’implosione interna del genere stesso e scegliendo, azzardatamente, di relegare il più che mai sacro ed granitico topos della sparatoria catartica agli ultimissimi dieci minuti. Ne scaturisce dunque un film anomalo e destabilizzante come furono a loro tempo il grottesco Matalo! di Canevari e ancor più il surreale Se sei vivo spara di Questi, nel quale la restante ora e mezza viene completamente dedicata, così come nella più tipica delle tragedie greche, ad approfondire la psicologia e le dinamiche che legano e oppongono i vari personaggi, affrontando per altro tematiche straordinariamente moderne – per non dire attuali – come l’emancipazione della donna e la sempre spinosa questione dell’identità afroamericana, lasciando quanto più a lungo possibile le pistole nella fondina e scegliendo di sfoderarle solo al posto e al momento giusto. Sarà forse proprio per questa sua inusuale filosofia del “prima parla e poi spara” che un film come Dead for a Dollar, accolto più che mai freddamente fuori concorso alla 79a edizione del Festival di Cannes tra accuse di eccessivo semplicismo e diffusa insofferenza verso una presunta stasi narrativa a fronte di un cast così ricco e di spessore, non può che provocare la medesima sensazione di spaesamento già provata a suo tempo dinnanzi allo sperimentale Wild Bill, dimostrando ancora una volta come un autore, proprio come l’insondabile Trintignant del Grande Silenzio corbucciano, non ha bisogno di colpi troppo rumorosi e pirotecnici per andare a segno laddove realmente può far male.