Featured Image

Das Verlangen der Maria D.

2018
Titolo Originale:
Das Verlangen der Maria D.
REGIA:
Marian Dora
CAST:
Shivabel Coeurnoir (Sara Negrisolo)
Marco Klammer
Marietta Fiori

Il nostro giudizio

Das Verlangen der Maria D. (Il desiderio di Maria D.) era un film che attendevo di vedere da almeno tre anni, A.D. 2018, cioè da quando era stato girato e, cioè ancora, da quando entrai in relazione con la sua protagonista, Shivabel Coeurnoir. Ma il destino post-produttivo è stato lungo e travagliato, per X ragioni che non voglio approfondire, per cui soltanto adesso l’opera ha potuto avere un’edizione in Blu Ray/dvd, dopo sporadici passaggi in alcuni Festival underground. Shivabel, come noto, non ha fatto in tempo a vederlo. E  spiace molto, al netto di tutto il resto, perché Das Verlangen der Maria D. è un grandissimo film. Comincia con il viaggio di una ragazza in Grecia. Una turista che, sola, si aggira tra la luce, il vento e il mare dell’Ellade. Il materiale è molto “sporco”, sembrano frammenti di vecchi filmini in Super 8, legati in un montaggio nervoso, sussultorio, con una tecnica che fa slittare il tempo in un altro tempo fuori dal tempo. Più che parlare banalmente di “sogno”, perché non si tratta di un sogno, sembra che la protagonista agisca dentro un ricordo, una memoria, che è la sua ma diventa anche la nostra. In queste schegge di immagini, un sentiero di morte si snoda, che contrasta con l’atmosfera estiva, e guida la viandante verso un camposanto, a una tomba, a una lapide, alla fotografia di un giovane defunto. Maria, cioè Shivabel, se ne innamora come lo vede. Se ne innamora fino alle estreme conseguenze. Tramite il mercimonio di individuo rozzo e brutale (Marco Klammer), riesce a entrare in possesso dell’urna contenente i resti del morto.

Maria D. principia un rapporto con le spoglie che avrà caratteristiche, a volersi adattare al linguaggio comune, “estreme”. Ovvero, usa quelle ossa polverose come strumento di piacere: non soltanto per ricavarne, piacere, ma per darne. Nella sua ideazione, infatti, il morto è una presenza o se preferiamo giocare, ma nemmeno tanto, con le parole, un’“assenza” viva. Le descrizioni, lascerebbero il tempo che trovano. Certo è che il film non è affatto un innesco per le porcherie che la mente immagina. Shivabel sprofonda in questo rapporto e vi si distribuisce con una generosità e con una intensità che – e astraggo da ciò che lei era, anzi è, per me – credo sia difficile immaginare in un’altra interprete. La sua “sacra follia” si integrava perfettamente con ciò che il film era nato per essere e solo lei poteva accettare di spingersi tanto oltre la linea. Shitting, pissing e quant’altro, sono solo parole vuote e stupide, termini da undergound da quattro soldi, che non restituiscono niente di Maria D. Proprio niente. Va visto, lo dico nel modo più banale possibile, perché non credo esista altra maniera. Il film è al di là delle descrizioni. Klammer (anch’egli bravissimo) torna nella narrazione quando si ripresenta alla porta di Maria D., per reclamare un debito, feroce, di carne e di sangue. Sono lunghe sequenze, prossime all’insostenibile, che accompagnano verso l’explicit della storia, un balletto tanatologico in cui Shivabel, se mai fosse possibile, più che incarnare un carattere che qualcuno ha scritto per lei, porta in scena tutta se stessa, con una purezza per la quale non mi perito di usare il termine “sconvolgente”. E oggi dico che era un presagio, un’auto-profezia, non so fino a che punto inconsapevole.

Il regista è Marian Dora, uno pseudo, dietro il quale si nasconde un signore tedesco “di stimata professione”, come si sarebbe scritto un tempo. Dora aveva debuttato, dopo alcuni shorts, come assistente di Ulli Lommel, ma la messa in luce registica la ottenne con Melancholie der Engel, del 2009, che resta obiettivamente il suo film migliore, prima di Maria D. e insieme a Carcinoma (firmato come Art Doran), del 2014. Il sottoscritto, davanti a Das Verlangen der Maria D., forse per vizio mentale, o per un vizio di forma, si sentirebbe legittimato a scomodare anche Alberto Cavallone, soprattutto per la nevrastenia del montaggio, al netto dei rimandi a Bataille e dell’immaginario scatologico-sepolcrale. E non credo che ad Alberto un film come questo sarebbe spiaciuto. Shivabel, del resto, aveva come film de chevet Spell dolce mattatoio e tra le sue interpretazioni le capitò di sorbire l’acqua da un water, esattamente – cioè intenzionalmente – come aveva fatto Paola Montenero per Cavallone.