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The Counselor – Il Procuratore

2013
Titolo Originale:
The Counselor
REGIA:
Ridley Scott
CAST:
Michael Fassbender (Avvocato)
Cameron Diaz (Malkina)
Penélope Cruz (Laura)

Il nostro giudizio

The Counselor – Il Procuratore è un film del 2013, diretto da Ridley Scott.

Un avvocato di grande prestigio e dall’alto tenore di vita è follemente innamorato di Laura e viaggia fino ad Amsterdam per comprarle un prezioso anello di diamanti. Il suo problema principale è però la liquidità e l’impossibilità di mantenere lo stile a cui è abituato. L’occasione giusta si presenta sotto forma di un unico, redditizio affare con il Cartello messicano. Il Procuratore, tentato dalla possibilità di fare tanti soldi facili in poco tempo – e nonostante gli avvertimenti del suo socio in affari Westray – decide di vendere l’anima al diavolo e di entrare nel mondo del traffico della droga. Quando il carico viene rubato il Cartello dà la colpa al Procuratore, trasformando la sua vita in un incubo e minacciando i suoi affetti. Nel suo primo film dopo la tragica morte del fratello Tony, alla cui memoria è dedicato, Scott mette il suo immancabile talento visivo al servizio di un noir anomalo, assolato e dai colori caldissimi, ambientato nel confine di fuoco tra Stati Uniti e Messico, una frontiera fatta di droga, criminalità organizzata, agguati e segreti. Si finisce con un supercast: Michael Fassbender, già diretto da Scott in Prometheus; una Cameron Diaz spietata e sensuale che ha avuto più di un problema nel riprodurre l’accento argentino, al punto da doversi ridoppiare; Javier Bardem che, quando c’è McCarthy di mezzo, sfoggia acconciature a dir poco bizzarre – anche se è difficile eguagliare il killer con la bombola di Non è un paese per vecchi – e Brad Pitt, in una piccola ma intensa parte, in tenuta da perfetto texano. Fassbender è semplicemente il Procuratore, un avvocato di grande prestigio e dall’alto tenore di vita – McCarthy afferma di essersi ispirato a un avvocato di New York autore di svariate truffe ai danni di ricchi benestanti di cui invidiava l’altissimo stile di vita.

Follemente innamorato di Laura (la Cruz), il Procuratore viaggia fino ad Amsterdam per comprarle un prezioso anello di diamanti. Il suo problema principale è però la liquidità e l’impossibilità di mantenere il suo stile da viveur a cui è abituato. L’occasione giusta si presenta sotto forma di un unico, redditizio affare con il Cartello messicano. Il Procuratore, tentato dalla possibilità di fare tanti soldi facili in poco tempo e nonostante gli avvertimenti del suo socio in affari Westray (Pitt), decide di vendere l’anima al diavolo e di entrare nel mondo del traffico della droga: il carico viene però rubato da Malkina (la Diaz) e il Cartello dà la colpa al Procuratore, trasformando la sua vita in un incubo e minacciando i suoi affetti. La frontiera messicana non è solo un quadro geopolitico ben definito, con una situazione sociale e legale ai limiti dell’assurdo, ma anche una metafora del classico baratro morale, dove il Bene e il Male stanno ai lati opposti ma si toccano, ed è difficile, secondo la poetica di McCarthy, persino riconoscere dove si trovano. Più di uno ha trovato dei paralleli, financo delle influenze, con la serie televisiva Breaking Bad, facilitato dalla presenza di qualche attore in comune e dalle ambientazioni. Innegabilmente c’è qualche somiglianza, nella spirale verso l’oscurità senza uscita intrapresa dai protagonisti – lì un professore di chimica spiantato e in odore di bara, qui un uomo potente vittima della propria arroganza – nonché nello sguardo borghese, lontano dagli schemi della criminalità, del mondo della droga come scappatoia accettabile verso un ideale di vita più patinato, di fronte al quale ogni remora morale deve essere accantonata e piegata alla ragione del benessere, unico criterio su cui conformare i personali principi etici.

Un compromesso che McCarthy vede come innato nella natura dell’uomo, spingendolo verso il lato oscuro. Anche l’amore più puro, così come il diamante scevro da imperfezioni, è pura utopia in questo universo immorale e si declina piuttosto in una ossessione per il sesso ampiamente distorta. La chiave di questo mondo è, come al solito, il sesso e McCarthy e Scott, in cerca di immagini forti che imprimano allo spettatore il concetto di un’umanità già alterata, senza salvezza e possibilità di redenzione, premono forte l’acceleratore su una delle scene più memorabili del film, dai chiari echi ballardiani: in un flashback la Diaz – o meglio e purtroppo, la sua controfigura – in tenuta leopardata, usa il parabrezza di una macchina per masturbarsi mentre Reiner la contempla, tra divertimento e stupore. Una scena giudicata da molti critici gratuita nella sua totale estraneità al racconto e ai toni del film, fino ad allora molto concentrati sui dialoghi e sulle riflessioni filosofiche che i protagonisti a turno si scambiano, ma nella sua essenza perfettamente inserita nelle coordinate polari verso cui il film si dirige. Non mancano altre scene forti a disturbare la visione, tra le quali fa effetto l’uso estremamente sanguinoso di una garrota meccanica.