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Conversazioni con un killer: il caso Dahmer

2022
Titolo Originale:
Conversations with a Killer: The Jeffrey Dahmer Tapes
REGIA:
Joe Berlinger
CAST:
Jeffrey Dahmer (se stesso)

Il nostro giudizio

Conversazioni con un killer: il caso Dahmer è un documentario in tre parti del 2022 diretto da Joe Berlinger.

Che altro ci sarebbe da dire (o da tele-mostrare) sul cannibale di Milwakee dopo l’uscita, con ascolti record, della serie Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan? Eppure, a pochi giorni dalla sua presentazione, Netflix, cavalcando l’onda del successo, torna sul caso, il 7 ottobre, con l’onesto docu-film  Conversazioni con un killer: il caso Dahmer, ideato da Joe Berlinger, già noto per altri due reportage  sui serial killer Bundy e Macy (rispettivamente 2019 e 2022) e numerosi altri, incentrati su assassini celebri o presunti tali come quelli di Paradise Lost che ricostruisce in tre puntate il discusso processo per omicidio a tre ragazzini dell’Arkansas). Ebbene, che c’è di nuovo in questo ennesimo prodotto sul biondino di Milwakee? Ci sono le registrazioni dei colloqui in carcere fra lui e Wendy Patrickus, la giovane e bella avvocatessa bionda che ce li fa ascoltare, e ne dibatte, oggi, trent’anni dopo l’arresto del killer. La Patrickus era l’assistente di Gerard Boyle, il difensore di Dahmer, e fu la sola a riuscire a creare un rapporto vagamente empatico con il killer. Inizialmente terrorizzata dall’incarico, la  Patrickus finì poi per accettarlo. Era il suo primo caso importante e il capo dello studio legale, Boyle le ricordava, il giorno della sua prima visita in carcere: «Non ti mangia mica», locuzione che, avendo a che fare con un cannibale, non era fra le più azzeccate. La linea difensiva mirava all’incapacità mentale: Dahmer raccontò i suoi 17 omicidi con il suo tono di voce pacato, creando, nell’avvocatessa, non pochi incubi notturni (il killer racconta con minuzia di particolari dei fori praticati con un trapano nel cranio di un paio delle sue vittime, fori poi riempiti con acido muriatico, per trasformare – diceva l’assassino – quelle persone in zombies e tenerle sempre con sé, ai suoi ordini).

Per di più, la Patrickus venne spesso minacciata dai alcuni parenti delle vittime (una la attaccò in un bar con una stecca da biliardo), tanto da costringerla a non uscire più di casa durante il processo. La corte, comunque, non concesse l’incapacità mentale e Dahmer che venne condannato a 15 ergastoli. Ciò che impressiona, osservando questo docufilm, sono le immagini dei veri protagonisti della vicenda, visibili attraverso spezzoni di interviste tv e materiale di repertorio, e la loro incredibile verosimiglianza con i personaggi della fiction di Murphy e Brennan: gli attori (alcuni dei quali, di colore, si sono lamentati di essere stati trattati malissimo sul set) sono quasi dei sosia dei protagonisti reali, persino la triste camicia a scacchi con maniche corte di Lionel Dahmer, il padre di Jeffrey, è ripresa nella fiction con maniacale attenzione ai particolari e Richard Jenckins, che lo interpreta, truccato ad hoc, gli somiglia come una goccia d’acqua. Ora, però, dopo gli onori ecco i possibili oneri per Netflix: la comunità LGBT di Milwakee e vari parenti delle vittime di Dahmer hanno già  sollevato polemiche: la fiction di Murphy & Brennan, secondo loro, «è razzista e pure omofoba e vuole strumentalizzare il dolore». A far infuriare ancor di più gli accusatori c’è stata la messa in vendita degli occhiali di Dahmer per 150mila dollari, «non meno», da parte di Taylor James, gestore del sito Cult Collectibles di Vancouver che detiene anche altri oggetti appartenuti al killer nel suo periodo di prigionia.

Quelli che conservava nel suo appartamento, nella spaventevole stanza 213, teatro degli orrori, vennero invece distrutti dopo che il palazzo in cui abitava l’assassino venne acquistato e poi demolito da un imprenditore filantropo che devolvette parecchie migliaia di dollari ai parenti delle vittime. Inoltre, la comunità Lgbtq è insorta chiedendo alla piattaforma di eliminare il tag LGBT (cosa che Netflix ha fatto).  Infine, i parenti delle vittime hanno contestato «l’eccessiva strumentalizzazione del dolore». Persino Variety ha criticato la serie per «l’eccessiva “umanizzazione” di Dahmer, i cui risvolti psicologici vengono sviscerati a fondo, quasi a renderlo”scusabile” di ciò che ha fatto». E pure Vanity Fair America: «La storia che meritava di essere sottolineata era quella della comunità nera emarginata che dava allarmi inascoltati». Proprio il contrario, in realtà, hanno fatto i produttori della serie che hanno proprio sottolineato quella emarginazione e anche in questo sta l’originalità di Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer. Critiche, quelle di di Vanity Fair America, che, in nome di un ormai trito e abusato politically correct,  si avvicinano sempre più, e pericolosamente, alla censura preventiva, più o meno inconscia (non ovviamente quelle dei parenti che sono comunque  comprensibili anche dopo 30 anni). Mi ricordano di quando un deputato della Lega tentò di porre un veto al Vallanzasca-Gli angeli del male (del male, sottolineo, non del bene…) diretto da  Michele Placido e presentato fuori concorso (e fra mille contestazioni) al 67° Festival di Venezia, sproloquiando che si era «celebrato» il bandito. Se questa linea di pensiero prolificasse non si potrebbero più realizzare film su Al Capone, Dillinger, il Mostro di Firenze o Jack lo squartatore… solo per citarne alcuni…