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Censor

2021
Titolo Originale:
Censor
REGIA:
Prano Bailey-Bond
CAST:
Niamh Algar (Enid Baines)
Michael Smiley (Doug Smart)
Sophia La Porta (Alice Lee)

Il nostro giudizio

Censor è un film del 2021 diretto da Prano Bailey-Bond.

Brutta bestia la censura vero? Quando il sangue sta finalmente per scorrere, qualche frattaglia si prepara allegramente a fuoriuscire e un innocente capezzolo inizia a far capolino a bordo inquadratura, proprio sul più bello zac, la maledettissima forbicina giunge implacabile a rovinare la festa. Chi bazzica i territori del cinema di genere col tempo ci avrà certamente fatto il callo, specialmente coloro i quali hanno avuto la sfortuna di lavorare nella bacchettona terra di sua Maestà Elisabetta II d’Inghilterra. E appunto nel beneamato paese del fish&cips e dei temuti video nasty che Prano Bailey-Bond ha scelto di ambientare il suo curiosissimo Censor, un allucinato e allucinante esordio, salutato più che calorosamente dal pubblico della sezione Midnight in quel del Sundance, attraverso il quale rievocare un’epoca ormai perduta in cui l’insidioso e brulicante sottobosco dell’home video era ancora capace di sviluppare incubi e leggende da far invidia al più raggelante degli attuali creepypasta. Un’epoca in cui il nastro magnetico di una scalcinata VHS poteva letteralmente spalancare le porte degli inferi, senza bisogno di abbonamenti o codici sconto.

Per chi ancora se lo stesse chiedendo il Censor del titolo fa riferimento al laido e sporco lavoro compiuto da Enid Baines (Niamh Algar), diligente e coscienziosa donnetta che, nel pieno degli opprimenti tatcheriani anni ’80, si occupa di visionare quelle gustose e violentissime pellicole di serie B destinate esclusivamente al mercato domestico, valutandone di volta in volta l’idoneità o meno per un pubblico considerato eccessivamente impressionabile.  La nostra tenta di compiere il proprio dovere con imparziale professionalità, almeno sino a quando un horror da lei stessa approvato non ispira un folle serial killer a commettere alcuni efferati omicidi. Ed è in questo clima di profonda crisi interiore che la giovane, visionando casualmente un cruento slasher intitolato Don’t Go in the Curch, inizia a convincersi che l’attrice protagonista Alice Lee (Sophia La Porta) sia nientemeno che sua sorella Nina, scomparsa anni addietro in circostanze alquanto strane e di cui si sta ormai per firmare il certificato di morte presunta. Mentre i ricordi del passato iniziano a tornare a galla sotto forma di tremende allucinazioni meta cinematografiche, Enid tenterà di rintracciare Frederich North (Andrian Schiller), il misterioso regista della malfamata pellicola ora impegnato nella lavorazione di un sequel della stessa in una sperduta località nel fitto dei boschi. Sarà lui a far luce sull’intera faccenda? Solo il tempo potrà dirlo. Anche perché, a ben guardare, la mente della giovane pare affetta da una sorta di amnesia selettiva che, come le sue proverbiali forbicine da lavoro, sembrano aver eliminato a tradimento intere porzioni del proprio vissuto, ricomponendo un film a dir poco distorto le cui parti salienti sono ormai irrimediabilmente cadute nell’oblio. O forse no?

Il bello di Censor è il fatto di essere un film profondamente analogico, tanto per ciò che racconta quanto per come lo racconta. Un microcosmo retrò dominato dal caro vecchio ronzio dei videoregistratori, dall’inconfondibile click dei vetusti telecomandi color caffè e, cosa più importante, impregnato di quel retrogusto di cinefilia underground che nemmeno i dvd di terza visione sonanti nei cestoni del supermercato sono oggi in grado di eguagliare. È appunto in questo sottobosco di leggendari squartamenti su videotape, spesso solo favoleggiati e mai realmente gustati con occhio, che la nostra eroina, al apri dell’altrettanto intrepida protagonista di Tesis, da inizio al proprio personale viaggio in un incubo a occhi aperti. Un incubo nel quale, così come in una folle versione horror del Realité di Dupieux, verità e finzione iniziano a confondersi sempre più, fino a condurre verso un personale Videodrome dal quale sarà impossibile uscire tutti interi. Si perché, così come Hills Run Red ci ha insegnato, la smania di voler incontrare a tutti i costi le fonte delle proprie cinematografiche paure, alla fine della fiera non porta mai nulla di buono. E nonostante nel suo lynchano epilogo la strisciante creatura di Bailey Bond rischi seriamente di sbandare verso una machiavellica e frettolosa esperienza puramente sensoriale, il resto del menù appare ben più che appetitoso, ricostruendo con minuzia di particolari e profonda cognizione di causa un’epoca orami mitologica in cui gli incubi, quelli veri, albergavano all’interno di un nastro magnetico e dell’aura leggendaria evocata dal solo passaparola.