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Cattive acque

2019
Titolo Originale:
Dark Waters
REGIA:
Todd Haynes
CAST:
Mark Ruffalo (Robert Bilott)
Anne Hataway (Sarah Bilott)
Tim Robbins (Tom Terp)

Il nostro giudizio

Cattive acque è un film del 2019, diretto da Todd Haynes.

Il legal thriller è, fra tutti i generi, quello che meglio esemplifica l’ingranaggio fondamentale di ogni buon film, secondo cui “senza conflitto non c’è azione e senza azione non c’è storia”. Prendiamo ad esempio Cattive acque, l’ultima fatica cinematografica di quel gran signore della celluloide di Todd Haynes, costretto, per la prima volta in carriera, a relegare momentaneamente in soffitta gli ormai consolidati barocchismi stilistici per piegarsi totalmente alle esigenze di uno dei più bui e spietati eventi di cronaca giudiziaria in terra dello Zio Sam. Ben armato delle gelide, taglienti e inquietantissime atmosfere che già avevano fatto la fortuna di quello splendido gioiellino d’esordio che fu Safe, il Nostro chiama a raccolta le scafatissime penne di Mario Correa e Matthew Michael Carnahan per dar nuova voce al celeberrimo articolo firmato da Nathaniel Rich nel 2016 per il New York Times, nel quale veniva sviscerato il terribile scandalo dell’inquinamento idrico di Parkersburg, in West Virginia, dove il colosso chimico DuPont venne accusato di aver sversato per oltre trent’anni sostanze cancerogene nelle acque dell’intera contea, facendo schizzare alle stelle l’incidenza di tumori fra gli animali da allevamento e fra gli stessi abitanti del circondario.

Una bella patatona bollente, dunque, quella che il caro Todd si trova a dover gestire, sguazzare nel torbido delle Cattive acque del titolo e lasciando che la forma venga quasi interamente fagocitata da una sostanza di grandissimo spessore. Ed è appunto da questo grande esercizio di etica cinematografica che nasce la decisione di chiedere a un solidissimo e credibile Mark Ruffalo di svestire un secondo i verdognoli bicipiti dell’Hulk marveliano per tornare a indossare la giacca e la cravatta de Il caso Spotlight, impersonando quel tal Robert Biliott che, da flemmatico difensore delle grandi aziende petrolchimiche, si trasformò nel loro più accanito oppositore, armato della ferrea intraprendente determinazione di una Erin Brockovich alla ricerca di giustizia in una meschina e corrotta Promise Land. Sostenuto dall’amore della cattolicissima mogliettina Anne Hathaway e dall’esperienza del ravveduto principale Tim Robbins, il nostro Rainmaker del foro dovrà imbastire un’estenuante battaglia legale che si protrarrà per quasi due decenni, rivelando all’opinione pubblica la zozzura e la meschinità che l’equazione fra denaro, politica e potere sono in grado di produrre. Nel mezzo, poi, tra una cosa e l’altra, ci buttiamo pure Bill Pullman, Bill Camp e Victor Garbe, così siamo sicuri di non farci mancare proprio nulla, giusto?

“Sembrava la cosa giusta da fare!”. Sentendo le parole pronunciate con timida umiltà dal vero Billiott durante un’intervista, pare proprio che anche il buon Todd Haynes abbia pensato a qualcosa di tremendamente simile prima di battere il primo ciak di Cattive acque, sentendo tutta l’urgenza di un autore ormai maturo nel dover, in un modo o nell’altro, fare i conti con la dura realtà dei propri tempi, dove non importa a nessuno se qualche molecola di PFAS in più viene allegramente assorbita dal nostro organismo durante un bel bagnetto o una rinfrescante bevuta; l’importante è avere sempre a disposizione le nostre brave pentoline antiaderenti. Magari prodotte da gentaglia che se ne infischia allegramente di gettare i propri rifiuti nello scarico del cesso. Per narrare tutto ciò al meglio delle proprie capacità, il buon Haynes capisce bene di doversi mettere totalmente in disparte, chiedendo al fido Edward Lachman di bagnare la propria calorosa fotografia nel ghiaccio secco, per sputar fuori un dolente dramma giudiziario a fosche tinte, nel quale la consueta gabbia narrativa del genere formata da completi gessati, investigazioni sul filo del rasoio, quintali di ciclostili e battaglie all’ultimo sangue fra i bachi degli imputati si trasforma in un incalzante e disturbatissimo tour de force legale. Una gimkana quasi kafkiana al termine della quale l’amaro rimasto in bocca dalla tremenda consapevolezza acquisita risulta ben più abbondante delle misere soddisfazioni ottenute dalle povere vittime del caso. D’altronde si sa: questa è la vita, e la vita, cari amici, è ben diversa da qualunque film, bello o brutto che sia.