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Capone

2020
Titolo Originale:
Capone
REGIA:
Josh Trank
CAST:
Tom Hardy (Al Capone)
Linda Cardellini (Mae Capone)
Kyle Mac Lachlan (Karlock)

Il nostro giudizio

Capone è un film del 2020, diretto da Josh Trank.

Come si dice in questi casi? C’era una volta, vero? Si, perché ogni grande storia ha sempre un grande inizio. Ma come ha più volte fatto notare il grande Martin Scorsese, è nel finale che i veri racconti danno il meglio di sé stessi. Sopratutto quelli che hanno dei criminali come protagonisti. Quale miglior modo, dunque, per narrare un mito se non quello di partire proprio dalla fine, dagli ultimi travagliati giorni prima del definitivo calo del sipario? Se poi il mito in questione è quello di uno dei più grandi gangster di tutti i tempi, beh, il finale non potrà che essere col botto. Letteralmente. La figura di Alphonse Gabriel “Al” Capone (“Fonzo” per gli amici più intimi) è ormai entrata di diritto nella leggenda. Terrore di Chicago, trafficante d’ogni risma, tallone d’Achille della giustizia americana degli anni ’30 e responsabile di alcuni dei più efferati eccidi di sempre, tra cui, il più noto, quello della fatidica strage di San Valentino. Ma questo già lo sappiamo, giusto? A noi interessa conoscere il dopo. Ed appunto su quel fantomatico after che Capone si concentra, su ciò che accade quando, scontanti poco più di undici anni di carcere duro ad Alcatraz per evasione fiscale, nel 1939 il Nemico Pubblico Numero Uno (Tom Hardy), malato di sifilide e di una precoce demenza senile, venne liberato per buona condotta, finendo, come il tanto stimato Napoleone a Sant’Elena, in esilio forzato nella sua villa a Miami. Ed è qui che, accudito dalla moglie Mae (Linda Cardellini), dal medico di fiducia Karlock (Kyle Mac Lachlan), dall’ex braccio destro Johnny (Matt Dillon) e attorniato dai suoi più fedeli scagnozzi, il mitico Scarface si trova costretto a fare i conti con i postumi di un ictus, con l’incontinenza, le crescenti manie di persecuzione e, cosa più importante, i terribili fantasmi del proprio criminale passato, tornati a bussare alla porta per reclamare vendetta allo scadere del tempo concesso.

Sembra sciocco da dire, ma il primo grande pregio di Capone è la sua estrema compattezza. Condensare in poco più di un’ora e quaranta il tormentato congedo di una vita tanto terribile quanto straordinaria è cosa non da poco nei solitamente straripanti terreni del biopic, scegliendo di relegare i pochi fondamentali accenni alle atrocità passate alle inquietanti e surreali allucinazioni che il nostro gangster in declino è costretto a subire mano a mano che la propria sanità mentale inizia irrimediabilmente a deteriorarsi. Ed è proprio la scelta di uno stile decisamente onirico e, per certi versi, anti realistico che premia ulteriormente il sorprendente lavoro di messa in scena di Josh Trank, uno su cui, sinceramente, visto quel mezzo disastrone del reboot all teen di Fantastic 4, non è che si fosse disposti a puntare poi molto. E invece il Nostro, ritornando a quella geniale freschezza che aveva reso a suo modo interessante l’esordio di Chronicle, riesce a lasciarci piacevolmente sbalorditi, trascinandoci in un universo decisamente lynchiano dove il muro che separa la realtà dalla follia inizia a sgretolarsi in maniera sempre più rapida, accompagnandoci per mano e senza soluzione di continuità fra i tormentanti ricordi di una sparatoria, qualche sessione intensiva di tortura – che arriva persino a sfiorare gli stuzzicanti terreni del gore puro – e una miriade di strambi e inquietanti spettri del Natale passato che, in più di un’occasione, come in un incubo aronofskyano ad occhi aperti, paiono sgusciati fuori dritti dritti da un personale Hoverlook Hotel di sensi di colpa. Si perché, che ci crediate o meno, a un certo punto si giunge persino a citare indirettamente proprio il caro vecchio Shining.

È un film decisamente strano Capone. Affascinante, intenso, intrigante ma davvero strano. Sarà forse anche merito di un Tom Hardy impegnato in un ruolo decisamente rischioso, sempre pericolosamente in bilico fra mimetismo, macchietta e, perché no, qualche istrionico guizzo di camp. Non è certo cosa facile portare sulle spalle il peso di un personaggio così grande divenuto col tempo tanto piccolo e fragile, incapace ormai di contenere il proprio sfintere tanto quanto la propria crescente pazzia. Ossessionato, come tutti i despoti, dalla sete di potere e che, persino in pieno collasso delle proprie facoltà mentali, non può far altro che desiderare ardentemente il vecchio maledetto denaro. Lo stesso denaro di cui, però, ora non sembra più ricordare l’ubicazione, foraggiando ulteriormente la leggenda che lo accompagnerà ben oltre l’ultima soglia. E basterebbe la sola tesissima sequenza di apertura a farci capire l’impellente necessità di lasciare per un po’ nel cassetto la nostra solita imperante sete di realismo, dove quello che appare un tremendo agguato si tramuta in un lampo in qualcosa di totalmente inaspettato. Un film strano, dicevamo, sicuramente geniale ma che non mancherà certo di dividere. Anche perché, sempre in nome di un geniale esperimento di decostruzione narrativa, qui ci troviamo in una di quelle rare situazioni in cui la bilancia che soppesa realtà storica e invenzione cinematografica tende marcatamente in favore della seconda. Una gran fortuna, verrebbe da dire.