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Call of God

2022
Titolo Originale:
Kône Taevast
REGIA:
Kim Ki-duk
CAST:
Zhanel Sergazina (Lei)
Abylai Maratov (Lui)

Il nostro giudizio

Call of God è un film del 2022, diretto da Kim Ki-duk.

Fra le proiezioni più interessanti della sezione “Fuori Concorso” a Venezia79, spicca sicuramente l’opera postuma del geniale maestro sudcoreano Kim Ki-duk, scomparso nel 2020: Call of God (Kône Taevast), un film spiazzante, alieno, indecifrabile, ma che arriva dritto al cuore dello spettatore, in virtù del suo carattere onirico dove il dramma si mescola con l’erotismo e con un coté thriller. Trattasi di una pellicola dalla lavorazione travagliata, prodotta e girata non nella Corea del Sud come d’abitudine ma nell’Est Europa – in particolare fra Estonia, Lituania e Kirghizistan – interrottasi dopo la fine delle riprese per la prematura morte dell’autore, e il cui girato è stato poi preso in mano da altri e montato in modo da avvicinarsi il più possibile all’idea del regista. Lo stesso Kim Ki-duk ha sceneggiato Call of God, una storia intricata dove al centro c’è una ragazza (Zhanel Sergazina) che conosce casualmente in strada un ragazzo (Abylai Maratov), sviluppando poi questo semplice incontro in un’amicizia e in una storia d’amore. Mentre sta vivendo queste vicende, la donna è svegliata durante la notte da una misteriosa telefonata, da parte di un mittente sconosciuto, il quale la mette al corrente che tutto ciò che ha vissuto finora è un sogno – forse destinato ad avverarsi – e che per sapere come prosegue deve tornare a dormire. Lei ricomincia così il sogno, periodicamente interrotto da telefonate simili, e continua la sua love story: destinata a trasformarsi però in una relazione tormentata e totalizzante, poiché la ragazza cade in preda a una gelosia assurda e morbosa verso il partner, il quale finisce a sua volta per essere ammorbato da un identico sentimento di sospetto. Tutto sfocia man mano in forme di violenza fisica e psicologica, ma Call of God è costruito volutamente senza conclusione, poiché il finale – che dal B/N di tutto il film diventa a colori – fa ripartire la vicenda da capo, come un Nastro di Moebius, un “eterno ritorno” nietzschiano dove non ci è dato conoscere né la soluzione né la verità. Tutto avviene forse in un sogno, o meglio in un incubo? Il sogno è un presagio? Oppure il vissuto dei due protagonisti è reale? Inutile scervellarsi troppo nel cercare di capire, poiché il film-testamento di Kim Ki-duk è un’opera da vivere così com’è – prendere o lasciare – un incubo che ricorda da vicino le spirali irrisolvibili del David Lynch più visionario, quello di Strade perdute e Mulholland Drive, comprese le telefonate e il vicino che spia. Non sapremo mai se la versione di Call of God che possiamo vedere è totalmente fedele all’idea che aveva il regista, ma sicuramente vi si avvicina molto: e non solo perché la sceneggiatura e il girato sono interamente suoi, ma perché il film sviluppa alcune tematiche ricorrenti nella sua filmografia – l’amore, il desiderio, l’ossessione. Un autore che, pur utilizzando sempre uno stile estremamente raffinato, non risparmia temi molto forti e scene crude, mettendo spesso in scena drammi psicologici a tinte nerissime (ricordiamo La samaritana e Pietà, Leone d’Oro a Venezia nel 2012), e storie d’amore in acido, pregne di erotismo e perversioni (basti pensare al controverso Moebius). E in tal senso, Call of God è un film intimamente “suo”, un film dove la storia d’amore si trasforma presto in una relazione malata, poiché entrambi i protagonisti finiscono per sviluppare una tremenda gelosia nei confronti del partner, fino a conseguenze assurde. Se la violenza fisica è per lo più tenuta fuori scena – pensiamo al colpo di mazza da golf inferto dal ragazzo a un vicino, che si interrompe bruscamente – la violenza psicologica e il desiderio di possesso reciproco finiscono per impregnare sempre più il racconto: fino a quando il ragazzo sequestra la ragazza in casa sua, dando vita a un autentico rapporto fra aguzzino e prigioniera, un po’ come ne Il portiere di notte di Liliana Cavani, reso credibile anche grazie alle interpretazioni viscerali e all’espressività dei due attori protagonisti. Non mancano scene erotiche molto crude (anche se abbastanza brevi), dove l’amplesso è raffigurato in tutta la sua carnalità, e la regia lascia intuire persino una sequenza di sesso al cimitero, anch’essa interrotta bruscamente, quasi strozzata. Il film è un continuo andare e tornare lynchiano fra realtà e sogno, intriso di mistero e inquietudine, a cui contribuiscono in modo determinante le telefonate da parte di questa voce roca (chi è? Un dio, come suggerisce il titolo? O il diavolo?). Kim Ki-duk ci ha abituati in passato a uno stile molto raffinato (pensiamo a Ferro 3 – La casa vuota): in Call of God lo stile rimane comunque ricercato, ma il regista adotta un B/N stilizzato, quasi minimalista, fra interni ed esterni abbastanza anonimi, dove i suoni e il silenzio sono talvolta spezzati dalle musiche aspre, stridenti, quasi rapsodiche. Curiosa è poi l’atmosfera straniante che si viene a creare per il voluto stridere fra i personaggi asiatici e l’ambientazione est-europea, come si deduce dai dialoghi e dalle scritte in kirghiso e russo: sicuramente è il frutto della produzione nell’Europa dell’Est, dove il film è stato girato, ma non è da escludere che Kim Ki-duk abbia così voluto inserire un ulteriore elemento straniante in una vicenda già di per sé assurda e nerissima.