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Bomb City

2017
Titolo Originale:
Bomb City
REGIA:
Jameson Brooks
CAST:
Dave Davis (Brian)
Glenn Morshower (Cameron Wilson)
Logan Huffman (Ricky)

Il nostro giudizio

Bomb City è un film del 2017, diretto da Jameson Brooks.

La miccia è invisibile, in fin dei conti lo è sempre. Nella sequenza di apertura di Bomb City una sigaretta cade sull’asfalto e la macchina comincia a viaggiare a velocità sostenuta lungo di esso, come se stesse seguendo un percorso già tracciato. La città-bomba del titolo è tutta qui, un concentrato sociale intrappolato in un meccanismo ad orologeria, pronto ad un’imminente detonazione. La cosa più orribile è che quella città esiste, così come è scolpita nella cronaca la storia che viene raccontata in questo primo lungometraggio di Jameson Brooks, passato in questi giorni in anteprima italiana (per la precisione, in quel di Torino) alla quinta edizione del Seeyousound International Music Film Festival. Amarillo, Texas esiste: Brooks ci è addirittura nato e cresciuto. E ciò che è ivi successo a tal Brian Deneke il 12 dicembre 1997 rimane ancora oggi inaccettabile. Non inspiegabile, però: anche se la miccia è invisibile non vuol dire che non la si possa percepire o intelligere. Brooks, dunque, rende visibile la scintilla che corre lungo il filo: da una parte una scalcagnata squadra locale di football e dall’altra i giovani punk. La gioventù perdente di Amarillo, vivace ed incosciente. E poi il mondo degli adulti che distrugge la loro sostanziale uguaglianza tifando per i primi e guardando con sdegno i secondi.

Mentre gli atleti parlano di college dopo l’ultima figuraccia rimediata sul campo, Brian e i suoi amici hanno grandi progetti per il loro locale, tra concerti e grandi feste a base di alcool fatto in casa. Due rette che presto si intersecano e dal cui primo attrito si accende il fuoco destinato a divampare. La regia di Brooks si fa subito dinamica, sembra un vero e proprio concerto punk, con un ritmo a colpi duri e ripetuti simile a un pogo, come quello che avviene all’inizio nel locale di Brian con la stessa potenza dei placcaggi che i loro antagonisti subiscono sul campo in un bellissimo montaggio parallelo. È ovvio poi che, aldilà di questo loro essere sulla stessa barca, la bilancia penda dopo poco in favore dei ragazzi con cresta e borchie. Inseguiti e neutralizzati dalla polizia come dei serial killer per un banalissimo graffito sul muro, messi alla gogna in un processo, dove tra l’altro, non sono gli imputati, per il loro modo di vestire: è il Texas di fine anni ‘90, ma sembra di essere ancora nel ‘68 lungo le strade di Easy Rider o nel ‘79 in quelle di The Warriors.

L’America soffoca ancora le culture alternative e ognuno serve la propria divisa, dal latino dividere. Ma soprattutto è incapace di prevedere e prevenire il momento in cui violenza psicologica e fisica porteranno a conseguenze estreme. Lo spettatore ignaro del fatto di cronaca in questione godrà senza dubbio di più della narrazione di Bomb City. Il motivo per cui, sin dall’inizio, vediamo alcuni dei protagonisti a deporre in tribunale e a ripercorrere i tratti salienti della storia è sicuramente un elemento che invoglia alla visione, ma è anche una spada di Damocle pesantissima che ripetutamente ricorda l’inevitabile resa dei conti con il Convitato di Pietra, quello scontro finale tra le due fazioni che è, prima di tutto, una grande dimostrazione di tecnica e tensione. Tutto avviene ad una velocità realistica, si ha la sensazione di essere in mezzo a quella mischia e di non rendersi conto di ciò che sta accadendo, fino al momento in cui quel fuoristrada entra in scena. L’esplosione è avvenuta e Bomb City si congeda con un finale struggente e purtroppo vero: la sensazione è quella di aver visto un film straordinario.