Featured Image

Black Phone

2021
Titolo Originale:
The Black Phone
REGIA:
Scott Derrickson
CAST:
Ethan Hawke (Il Rapace)
Mason Thames (Finney Shaw)
Madeleine McGraw (Gwen Shaw)

Il nostro giudizio

Black Phone è un film del 2021 diretto da Scott Derrickson.

Congedato anzitempo dall’MCU, Scott Derrickson si è infine lasciato alle spalle Doctor Strange (franchise passato di mano ad un altro ex regista horror, di diversa caratura), tornando dopo cinque anni di silenzio all’ovile di Jason Blum. Evidentemente saturo di star ingestibili, budget paurosi e produttori esecutivi ammorbanti, è al cinema di paura più scarno di tutti che guarda ora il regista: ancor più minimale di Sinister e di Emily Rose, Black Phone è un puro dramma da camera, claustrofobico, forse un po’ presuntuoso. E’ l’opera del rilancio per un autore evidentemente in rotta con il controllo asfissiante delle grandi major, determinato a farsi valere attraverso il puro storytelling della macchina da presa. Come sempre più spesso capita di vedere nell’horror mainstream di matrice Blumhouse, anche Black Phone sceglie un passato mitico del novecento americano per inquadrare la sua storia. Siamo in questo caso negli assolati sobborghi del 1978: qui, in Colorado, un indivuo in minivan nero rapisce bambini. Nessuno l’ha mai visto, nessuno ne conosce il volto né le motivazioni (anche se le immaginiamo): lo chiamano semplicemente “the Grabber”, o un più poetico “rapace” in italiano. Nel già paranoico clima del periodo, con paura e violenza che paiono effondere dall’asfalto, tocca al piccolo  Finney (Mason Thames) risvegliarsi, narcotizzato e sotto shock, nella cantina insonorizzata del mostro. Una prigione con un unico telefono nero, apparentemente staccato – bizzarra arma attraverso cui costruirsi la propria liberazione.

E’ forse presto per dirlo, ma sembra che la stagione delle ghost stories si stia finalmente avviando a conclusione; almeno sembra suggerirlo la costante rimonta del serial killer come figura cardine del cinema di paura. Nonostante gli ovvi riferimenti a Pennywise, il Grabber di Ehan Hawke ha ben poco di superumano: dietro la grottesca mascherata (sempre eccellente il lavoro sul look offerto dal marchio), il rapitore seriale non è che un banale, viscido e odioso John Wayne Gacy, o un Ed Kemper, o un Jeffrey Dahmer – insomma, uno dei tanti macellai che popolavano la folle America dei ’70. E la riscoperta del sanguinoso decennio dai colori seppia è a sua volta un segnale, evidente scarto rispetto alla dittatura dei paciosi e colorati anni ’80. Se negli ultimi tempi il pericolo sembrava palesarsi da una dimensione astratta, inafferrabile e difficilmente concepibile, le paranoie collettive quantomeno americane vanno riacquistando una base sempre più concreta. Il suggerire un’idea di violenza rarefatta, dormiente, è il singolo elemento più forte di Black Phone. Quello di Derrickson non è un universo pacificato sconvolto dal paranormale, ma un mondo di sberle e dolore, contusioni e percosse, dove il debole finisce sopraffatto perfino da chi dovrebbe assicurarne la salvezza. Il fortissimo legame tra i due simpatici fratellini protagonisti (c’è anche la piccola Madeleine McGraw) è costruito proprio sulla resistenza disperata a un mondo predatorio: in fondo, i due non sembrano tanto più al sicuro a casa, in compagnia del padre-belva Jeremy Davies, piuttosto che fuori. In un simile ambiente, che un Grabber qualunque possa fare i suoi comodi in pieno giorno, nell’indifferenza generale, per quanto difficile da credere, diventa provocatoriamente possibile. La minaccia vive ad ogni angolo, ed è semmai nell’oscurità dei luoghi “infestati” che sembra sopravvivere una possibile alterità a questo orrore.

Black Phone sembra dunque volersi sì riavvicinare al terrore fisico – ma solo per anteporgli una riscoperta del fantastico, inquadrato sotto diversa luce. Un’idea che era già presente nel bellissimo Ghostland di Pascal Laugier, con il quale il film di Derrickson ha diversi punti di contatto. In entrambe le opere, è la più squallida cronaca nera a riprendersi lo spazio occupato dagli spettri di fantasia – i quali finiscono per rivelarsi, per contrappasso, veri strumenti di resistenza al reale. Certo, un’idea del genere avrebbe forse giovato di una messa in scena in grado di reggere la staticità del racconto (ma Derrickson non è Sam Raimi – e non è neanche Laugier), o quantomeno di una più profonda elaborazione del suo spunto (ma l’autore Joe Hill-King non è papà Stephen, anche se fa di tutto per imitarlo). Black Phone non sembra avere molto da dire al di là di una comunque diligente costruzione della suspense: il suo racconto resta a livello bambino – con tanto di bizzarra lezione di vita finale, che ribaltando l’assunto erge violenza e vendetta a viatico per ritrovare se stessi e la confidence necessaria ad approcciare ragazzine a scuola. Rape and revenge per il pubblico di Stranger Things: un sottogenere che mancava.