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Berlin Syndrome

2017
Titolo Originale:
Berlin Syndrome
REGIA:
Cate Shortland
CAST:
Teresa Palmer (Clare)
Max Riemelt (Andi)
Matthias Habich (Erich)

Il nostro giudizio

Berlin Syndrome è un film del 2017, diretto da Cate Shortland

Accantonati i divertissement psichedelici di Baz Luhrmann e messe da parte le ruffianate filo-hollywoodiane di Peter Weir, da qualche tempo a questa parte il polveroso e torrido outback cinematografico australiano ha iniziato a sfornare a ritmo sostenuto una gran quantità di prodotti di genere decisamente degni di nota, partendo dal revival post-apocalittico di Mad Max: Fury Road fino a quel piccolo gioiellino perturbante di Babadook.  Ed è proprio all’interno di questa nuova promettente tendenza che si colloca a pieno titolo Berlin Syndrome, terzo lungometraggio firmato da Cate Shortland, cineasta sensibile e intelligente che già con i precedenti Somersault (2004) e Lore (2012) aveva saputo rivelare una spiccata attitudine a dipingere per immagini i sottili e morbosi patimenti del rapporto di coppia disfunzione. C’è del marcio nella terra dei canguri, anche se in questo caso si tratta, in verità, di una gita fuori porta, quella compiuta dalla giovane Clare (Teresa Palmer) nella Berlino industriale contemporanea, città ricca di storia e catalizzatrice dell’incontro (fortuito?) con il fascinoso e premuroso insegnante d’inglese Andi (Max Riemelt). Fra i due nasce subito del tenero, ma dopo che la giovane acconsente a far visita alla modesta abitazione del nuovo spasimante si accorge ben presto di quanto difficile sarà per lei potersene andare incolume.

dentro 1

A un primo livello superficiale parrebbe di trovarsi dinnanzi a un miscuglio psycho-thriller fra le torbide pulsioni erotiche di Ultimo tango a Parigi e il sequestro di persona de La gabbia, laddove in entrambe le pellicole – e in special modo in quella di Patroni Griffi – il perimetro delle quattro mura domestiche diviene una prigione edificata sul distorto meccanismo dell’ossessione/possessione di un partner più o meno reticente ad accondiscendere a un amore estremo e potenzialmente letale. Tuttavia Berlin Syndrome va ben oltre, tanto da mettere in scena con sapiente abilità un rapporto a dir poco ambiguo fra un amante/carceriere ossessionato dal contatto fisico quale segno di possesso assoluto – espresso tanto con il rapporto sessuale selvaggio quanto con gesti più intimi e quotidiani come il lavaggio del corpo e i continui toccamenti – e una vittima che, nonostante il tenace progetto di evasione, mostra in controluce alcuni tratti di una possibile Sindrome di Stoccolma.

dentro 2

Ripensando forse al legame malsano fra rapito e rapitore ben delineato da Jennifer Lynch in Chained – e reso ancor più inquietante nell’esordio di Boxing Helena – la Shortland ci immerge in un racconto ricco di tensione e sofferenza tanto fisica quanto mentale che non manca di far eco al sequestro/segregazione quale forma di compensazione a un bisogno affettivo morboso (come già ben tematizzato da Ben Young in Hounds of Love), proponendoci fin dal principio una miriade di piccoli inquietanti indizi – l’ossessione di Andi per le natiche, la passione condivisa (ma per motivi del tutto differenti) per la fotografia e le pitture erotiche di Gustav Klimt, l’uso del tatuaggio come marchio indelebile del possesso carnale – che già fanno presagire verso quali oscuri porti potrà attraccare questa malsana nave dell’amore a senso unico. Berlin Syndrome può essere considerato un ottimo drama-thriller ricco di sottesi erotico-passionali che fanno capire – a maggior ragione in un’epoca di rapporti sentimentali distorti pronti troppo spesso a sfociare in femminicidio – quanta poca differenza vi sia ormai fra l’uomo e la bestia.