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Belfast

2021
REGIA:
Kenneth Branagh
CAST:
Caitríona Balfe (madre)
Judi Dench (nonna)
Jamie Dornan (padre)

Il nostro giudizio

Belfast è un film del 2021, diretto da Kenneth Branagh.

L’autobiografia cine-letteraria è uno dei generi a più alto rischio di invenzione. È successo davvero? Quel tipo ha vissuto quell’evento secondo quella dinamica? Domanda annosa quanto inutile, che si applicava – per esempio – ai libri di Henry Miller (oggi si direbbe memoir) come Sexus, quando i critici si chiedevano se davvero Henry intratteneva tanti e tali rapporti sessuali con chiunque gli capitasse a tiro. Ma chi se ne importa della veridicità? Ecco perché anche al film autobiografico di Kenneth Branagh, Belfast, si accorda la licenza di inventare, riscrivere, romanzare: il giovane Buddy/Branagh, interpretato da Jude Hill in un bianco e nero del ricordo, cresce in città nel 1969, dentro una famiglia protestante su un territorio segnato dal conflitto con i cattolici, per giunta in quartiere misto. Ha visto davvero la guerriglia, le spedizioni contro le case della minoranza cattolica? Si è trovato invischiato negli scontri sino a rischiare la vita? Non importa, perché ciò che conta è la scelta di messinscena. Dopo una breve ripresa di Belfast oggi ecco che Branagh opera un’adesione alla prospettiva del sé bambino: è dai suoi occhi che vediamo la storia.

Proprio in virtù della focalizzazione interna vanno intesi i nodi centrali: la famiglia operaia col padre lontano, i nonni che sono la generazione precedente al tramonto (Ciarán Hinds e Judi Dench), in grado di fornire consigli e avvezzi al contesto, e appunto il duro scenario del conflitto, impossibile da evitare se vivi in quelle strade. La “meraviglia” della violenza viene dunque riscritta dalla percezione di un bambino di nove anni, che spiega così perché la questione non sia approfondita – tra protestanti e cattolici è questione di nomi – e perché ogni complessità risulti semplificata nella mente di una tarda infanzia. Il problema di Belfast è decisamente un altro e sta nella rappresentazione: il regista-protagonista non trova di meglio che affidarsi al ralenti per restituire il tumulto della battaglia. Le gangs of Belfast si scontrano senza una goccia di sangue: auto in fiamme, pietre e bastoni, vetrine spaccate e saccheggi, eppure la sostanza viene totalmente edulcorata, in contraddizione con l’occhio giovane che dovrebbe aver visto qualcosa di terribile (quindi tenerlo impresso). E il racconto a tratti perde completamente la prospettiva: se il bambino è lo sguardo narrante, all’improvviso l’obiettivo lo lascia, lascia la focalizzazione e si concentra su altri personaggi e su ciò che Buddy non può aver visto, mantenendo però lo stesso registro in un vero e proprio “errore” stilistico.

L’esempio più chiaro è la sequenza finale di Judi Dench, che per costruire una chiusura toccante passa dallo sguardo di Buddy a quello della nonna senza alcuna giustificazione. Quando Branagh inscena la sua educazione cinematografica, poi, le cose non migliorano: il ragazzino va al cinema con i genitori e l’incanto si traduce nell’inquadratura del suo volto sgomento davanti allo schermo, con la luce pellicolare che forma una corona, nel pieno dello stereotipo. Così come sfacciato è il ruolo svolto da Mezzogiorno di fuoco, che da diegetico diventa extra e deborda nelle strade di Belfast, per dirci che anche quello è un western, anche lì si spara e uccide: Branagh si appella cioè a immagini ultra-note, quelle del capolavoro di Zinnemann che sono nella mente di tutti, nell’impossibilità di costruirne di nuove, preferendo pescare nella comoda riconoscibilità della memoria cinefila.