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Assandira

2020
REGIA:
Salvatore Mereu
CAST:
Gavino Ledda (Costantino Saru)
Anna König (Grete)
Marco Zucca (Mario)

Il nostro giudizio

Assandira è un film del 2020, diretto da  Salvatore Mereu.

La svolta di genere di Assandira arriva, a sorpresa, nella chiusa del film. È stato uno dei grandi momenti di “irregolarità narrativa” dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che di regolare, d’altronde, ha avuto ben poco. Non è nemmeno l’unica anomalia del caso. Dall’ultima fatica di Salvatore Mereu, a capo di una sorta di new wave del cinema sardo, era lecito attendersi il dialetto locale, la concretezza degli ambienti, la crudezza del ritratto culturale. Ci sono tutti questi elementi in Assandira, tanto che secondo Mereu la pellicola, tratta da un romanzo di Giulio Angioni dallo stesso nome, è una summa della sua poetica registica. L’orizzonte, però, è più ampio del solito. Ci si spinge più in là, con un discorso abbozzato sul linguaggio, sul contrasto ideologico fra antico e moderno, rurale e cittadino. Film da festival a 50 carati, è l’opera ambiziosa e irrisolta di un filmmaker in itinere nel suo percorso autoriale. Un passo per volta, nel bene e nel male, verso la maturità artistica. Assandira è un agriturismo che non c’è più. All’inizio del film è già stato annientato dalle fiamme, una punizione biblica che a Costantino è costata la vita del figlio Mario, gestore della tenuta. Costantino racconta a un ispettore di polizia locale quello che è successo. Ci prova, perlomeno: nella vicenda ci sono evoluzioni oscure difficili da portare alla luce. Lo si comincia a percepire verso la metà del film, quando il mistero che avvolge il podere si infittisce.

Mario ha deciso, assieme alla giunonica moglie tedesca, di trasformare la casa in un progetto vacanziero che attiri l’attenzione dei turisti stranieri. Sorgono i dubbi, le incertezze, i contrasti: Costantino, ex pastore dall’indomito carattere, asseconda a malincuore la decisione del figlio. Le tensioni aumentano, gli enigmi si accumulano: cos’è successo la notte del disastro? Si arriva quindi al colpo di scena, al plot twist ricercato che apre la porta al folk-horror, in una sequenza notturna sul cui svolgimento è bene mantenere il silenzio. La dialettica fra progressismo e reazione culturale si risolve in tragedia orrorifica, estremizzazione di una componente del racconto al tempo primitiva e attuale, locale e straniera. Tutto bene sulla carta. Se non fosse che, in un impianto narrativo così legato alla naturalezza delle forme e al realismo del dipinto caratteriale, la sferzata di genere finisce per annacquarsi, si diluisce fino a sembrare assurda. Quando il colpo di scena arriva, arriva dal nulla. Se lo snodo torna da un punto di vista contenutistico, a livello narrativo le crepature sono difficili da nascondere: rivisto dopo la svolta ultima, Assandira assomiglia più a un vaneggiamento che a un discorso concluso e coeso.

Ciò che resta, in fondo, è la storia di un padre in lutto, di un uomo il cui habitat è stato prima rivoluzionato e poi annichilito. Gavino Ledda (ex pastore divenuto autore di, fra i vari, Padre-padrone dei fratelli Taviani) è l’attore che dà corpo e voce all’antieroe di questo racconto, e il film appartiene a lui: se i fili della trama non tornano del tutto, la parabola di Costantino è il motivo per cui l’impalcatura esasperata riesce a stare in piedi. Il resto del film funziona a spizzichi e bocconi, ma per Ledda un salto al cinema si potrebbe e dovrebbe farlo. Assandira è stato presentato fuori concorso al Lido, ma secondo Alberto Barbera si sarebbe meritato un posto nel concorso ufficiale di quest’anno: viene da dargli ragione. Non tanto per il valore dell’opera, ma come opportunità per segnalare la tendenza di un certo cinema d’autore a non crucciarsi delle classificazioni di genere, a inoltrarsi in territori geo-narrativi considerati, in linea di massima, di difficile esplorazione da parte di chi voglia fare “cinema serio”. Un’occasione doppiamente sprecata.