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Apples

2020
Titolo Originale:
Mila
REGIA:
Chistos Nikou
CAST:
Aris Servetalis (Aris)
Sofia Georgovassili (Anna)
Anna Kalaitzidou (Medico)

Il nostro giudizio

Apples è un film del 2020, diretto da Christos Nikou.

In principio era Lanthimos. Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui nulla di ciò che è sarebbe mai stato tale. È appunto al visionario cineasta di Pangrati che si deve il surreale, perturbante e impietoso pessimismo che in questi tempi oscuri sembra dilagare come un cancro in tutto il ventre molle della cinematografia greca. Pessimismo che aveva a suo tempo infettato ogni singola cellula dello scioccante Miss Violence di Alexadros Avranas e che ora mostra di aver esteso ulteriormente il proprio contagio sull’esordiente Christos Nikou e il suo brumoso Apples. Da buon pupillo del maestro Yorgos, il nostro esordiente classe ’84 non mostra infatti la ben che minima remora nel dipingere, in chiave grottesca e profondamente simbolica, la deriva di un paese da sempre sull’orlo di un’instabilità tanto politica quanto socio-culturale, scegliendo la formula di una cupa e bizzarra distopia che altro non è se non un pretesto per dar forma ad una curiosa quanto improbabile love story. Ed è appunto un’Atene decisamente anomala quella che si respira in Apples. Contemporanea sulla carta ma inquietantemente analogica nei suoi elementi e nelle sue ambientazioni che la rendono simile a un grigio paesino esteuropeo post comunista. Una geografia fuori dal tempo, popolata da registratori a cassetta, radio a transistor e da una disturbante indifferenza generale verso una dilagante epidemia di amnesia che sembra colpire senza la ben che minima logica.

Un’inspiegabile morbo che affligge anche il povero Aris (Aris Servetalis), privato da un giorno all’altro di ogni più intimo ricordo e internato, assieme a un’infinità di compagni di sventura, in una delle tante cliniche cittadine nelle quali sono possibili due scelte: una degenza forzata in attesa della provvidenziale venuta di qualche parente oppure un vero e proprio reset esistenziale attraverso uno sperimentale programma denominato “Nuova Identità”. Senza nessuno che lo possa identificare e con una morbosa attrazione nei confronti delle mele – forse unico residuo del proprio passato ormai perduto – Aris verrà guidato nella sua riabilitazione da una coppia di medici (Anna Kalaitzidou e Argiris Bakirtzis) i quali, tramite bizzarri consigli registrati su nastro magnetico e altrettanto bizzarre richieste di documentazione fotografica attraverso scatti di Polaroid, tenteranno di insegnare nuovamente all’uomo le più basilari condizioni di vita come mangiare, andare in bicicletta e relazionarsi con i propri simili. Sarà proprio il fortuito incontro con Anna (Sofia Georgovasil), anch’essa vittima del virus della dimenticanza, a dare uno scossone alla kafkiana vicenda, conducendo i protagonisti verso un futuro tanto intenso quanto pericolosamente incerto. Ogni riferimento alla pandemica contemporaneità e tutto fuorché casuale all’interno di Apples. Presentato durante un’insolita Mostra del cinema di Venezia 2020 blindata dalle misure anti Covid-19, il convincente e spiazzante esordio registico di Nikou non fa mistero di voler parlare dell’oggi, della sua crisi di comunicazione e della sua profonda insicurezza generazionale attraverso la forma di un plumbeo e desolante universo distopico che la gelida e polverosa fotografia in 4:3 di Bartosz Swiniarski cattura con uno spietato realismo dal sapore quasi documentario.

La cerebrale geometria lanthimosiana viene infatti sostituita da una regia di fatto più libera ed esplorativa, la quale tuttavia, attraverso angolazioni di tre quarti, dilatazione della durata delle inquadrature e un’insolita aria lasciata in testa ai personaggi riesce ugualmente a replicare quel senso di profondo straniamento figlio diretto del tanto conclamato greek weird touch codificato e sdoganato dall’autore di Dogtooth. Ma se dal proprio mentore Nikou eredita chiaramente una certa sospensione nel coreografare le performance recitative dei propri personaggi, giocando per lo più in sottrazione, la sua “bizzarria”, a differenza di quella progettuale di matrice lanthimosiana, inizia ben presto a girare a vuoto, rivelandosi puramente accessoria a quello che, a conti fatti, altro non è se non un racconto di due esseri privi di memoria che, attraverso l’incontro-scontro delle proprie esistenze, tenteranno di crearsi dal nulla una nuova identità in un mondo allo sbando nel quale si fa menzione di agitazioni politiche senza mai mostrarle e si incita al terrorismo come con inquietante nonchalance. Un pas de deux che si trasforma ben presto in un surreale menage-a-quatre nel momento in cui le continue intrusioni in presenza e su nastro dei due equivoci sperimentatori inizieranno a condizionare sempre di più la vita pubblica e privata del nostro protagonista, spingendolo verso un epilogo in cui, quando sembra proprio che il velo di Maya possa iniziare  a lacerarsi, il machiavellico sopraggiungere dei titoli di coda ci porta a riconsiderare ogni minima certezza acquisita.