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13 – seconda stagione

2018
Titolo Originale:
13 Reasons Why
REGIA:
Gregg Araki, Karen Moncrieff, Eliza Hittman, Michael Morris, Kat Candler, Jessica Yu, Kyle Patrick Alvarez
CAST:
Dylan Minnette (Clay Jensen)
Katherine Langford (Hannah Baker)
Christian Navarro (Tony Padilla)

Il nostro giudizio

13 è una serie tv del 2018, ideata da Brian Yorkey

Quando lo scorso anno 13 Reasons Why è approdata nel catalogo Netflix nessuno si sarebbe immaginato il suo successo immediato, la sua viralità, che ha trasformato un teen drama – genere molto spesso bistrattato – in un fenomeno mediatico e in una delle serie di punta della piattaforma di streaming. A quel punto, realizzare un seguito era pressoché inevitabile. Quasi obbligatorio.
La prima stagione raccontava i tredici motivi che hanno spinto la giovane Hannah Baker (Katherine Langford) al suicidio e si chiudeva con Clay Jensen (Dylan Minnette), innamorato della ragazza, in procinto di voltare pagina. La seconda stagione riprende cinque mesi dopo: Clay non è andato avanti, ma perlomeno ci ha provato, e l’incombere del processo, mosso contro la scuola da parte della madre di Hannah (Kate Walsh), costringerà tutti a fare i conti con il passato. Questa volta non saranno le cassette a dettare il ritmo della narrazione, ma le dichiarazioni in tribunale.

Diciamolo subito: quella voglia spasmodica che spingeva lo spettatore a guardare gli episodi tutti d’un fiato è scomparsa. I primi episodi procedono con estrema lentezza, pochi eventi e non particolarmente rilevanti. Da subito emerge il tentativo di instillare il dubbio che Hannah non abbia detto tutta la verità, che ci siano altri segreti da svelare, pericolosi e sconvenienti, che possano intaccarne il ricordo e pregiudicare il processo. Ogni tentativo, però, sarà perlopiù vano, e bisognerà attendere fino al sesto episodio per scoprire qualche dettaglio che sia davvero degno di nota. Anche a scapito della verosimiglianza, che in questa stagione diventa una delle note più dolenti, insieme a scrittura e montaggio. L’alternanza tra presente e passato, accurata e sapientemente giocata sulla suspense nella prima stagione, diventa ora confusa, raffazzonata. Con un racconto che si sfilaccia, arranca, anche a causa di una fastidiosa voice-over, non ben integrata.
Il punto di forza di 13 Reasons Why rimangono ancora i personaggi: in primis Clay, sempre più arrabbiato, specialmente con Hannah, e poi Jessica (Alisha Boe), Alex (Miles Heizer), Justin (Brandon Flynn), che avrà una delle migliori storyline, e Tyler (Devin Druid), protagonista della scena  in assoluto più dura della stagione. I temi affrontati sono gli stessi già presenti nella prima stagione. Dalla depressione al suicidio, dallo slut-shaming al bullismo. Mentre aleggia, sin dai primi episodi, un’altra piaga sociale, quella delle armi da fuoco; e trova spazio anche un altro tema difficile, come quello della malattia mentale.

Ma se nella prima stagione 13 Reasons Why aveva convinto anche gli spettatori più refrattari, grazie a un racconto adulto, coinvolgente e ottimamente bilanciato nel suo impegno sociale, nella seconda tale equilibrio si perde del tutto, pregiudicando soprattutto il lato dell’intrattenimento. La sensazione è che abbia prevalso la paura di osare, spingendo verso una storia più realistica e cruda (e dunque più esposta alle critiche, come già avvenuto lo scorso anno), per realizzare invece una serie-manifesto che punta tutto sulla veicolazione di un messaggio sociale forte, chiaro, ammirevole ma troppo ostentato, mettendo dunque a rischio la riuscita del racconto finzionale e l’efficacia del messaggio stesso. 13 Reasons Why si fa così più didascalica, ingenua, prevedibile nella sua presa di posizione contro un sistema scolastico inefficiente, contro la violenza sistematica di stampo patriarcale (evidenti i rimandi al #metoo), contro stereotipi e pregiudizi inconsci. Tutte questioni fondamentali che avrebbero avuto forse ancora più risalto se trattate nella giusta misura.
Non mancano dunque svolte buoniste, ma il quadro adolescenziale dipinto rimane tra i più neri mai raccontati, che fa il paio con altri recenti teen drama di successo (Skam, The End of The F**king World). Il tutto a conferma dell’ottimo momento che sta vivendo il genere, capace di travalicare i confini canonici della serialità per divenire altro. Un manifesto, una dichiarazione d’intenti, che, nonostante i suoi limiti, ha l’innegabile merito di portare l’attenzione su argomenti scomodi, difficili e troppo a lungo ignorati.