Mezzo Secolo di Enterprise

“Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di strani nuovi mondi alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima.”
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Era l’otto settembre del 1966 quando sulla rete statunitense NBC queste parole aprivano la messa in onda del primo episodio di una serie TV destinata a cambiare per sempre il mondo della fantascienza: l’episodio si intitolava Trappola umana (The Man Trap) e la serie tv era Star Trek. In Italia, però, le gesta del capitano James Tiberius Kirk e dell’eterogeneo equipaggio dell’Enterprise non sarebbero arrivate fino all’autunno del 1979. Il 13 giugno del 2013 invece esce nelle sale italiane Into Darkness – Star Trek, dodicesimo film dedicato a uno dei più longevi media franchise del mondo (firmato da J.J. ‘Mr Lost’ Abrams).

Nell’arco di 47 anni siamo passati dalle gesta di un equipaggio destinato a viaggiare nello spazio profondo per placare l’illuminata sete di conoscenza dell’uomo, a quelle di un uomo, il giovane Capitano Kirk, impegnato a contrastare le scellerate azioni di un terrorista interno alla Federazione. Come è stato possibile? Cosa è successo per trasformare l’Enterprise da astronave dedicata alla ricerca scientifica a ultima difesa contro la minaccia fin troppo odierna e reale del terrorismo? Sei differenti serie televisive (di cui una a cartoni animati), per un totale di 30 stagioni e 11 pellicole proiettate sul grande schermo a partire dal 1979, sono un motivo sufficiente per qualsiasi tipo di metamorfosi. Ma andiamo con ordine.

 

IN PRINCIPIO ERA LA GUERRA FREDDA

Gli anni ‘60 non sono ricordati di certo, negli Stati Uniti come in Europa, per il clima spensierato che si respirava: il mondo era congelato nelle fasi più acute della Guerra Fredda che sembrava destinata a sfociare nel terzo e definitivo conflitto mondiale. Come spesso accade è stato compito della fantascienza, attraverso la penna illuminata di Gene Roddenberry, precorrere i tempi e raccontare di un mondo che avrebbe potuto essere. L’astronave USS Enterprise (NCC-1701), gioiello della Federazione Unita dei Pianeti, divenne il principale palco sul quale un equipaggio composto da americani, russi, persone di colore, asiatici, europei e persino alieni collaborava unito nell’esplorazione della galassia. In un clima di tensione mondiale nel quale si stava vivendo, pensare al capitano Kirk (William Shatner), icona americana per eccellenza, che affidava la sua stessa vita al guardiamarina russo Pavel Checov (Walter Koenig) o al tenente giapponese Hikaru Sulu (George Takei) era più fantascientifico del teletrasporto stesso. Eppure Roddenberry decise di lasciar volare la sua fantasia arricchendo questa visione già di per sé fuori dal comune con due elementi fondamentali: una tecnologia talmente realistica da diventare nei decenni seguenti realtà, e tantissime metafore narrative con le quali si permetteva di sezionare il cupo presente attraverso la minuziosa lente fornitagli dallo stesso Star Trek.

E, come se non bastasse, grazie alla creatività tipica degli anni in cui gli scogli tecnici costringevano ad affinare l’ingegno, l’invenzione del teletrasporto: nato per contenere le folli spese necessarie a mostrare l’Enterprise durante l’atterraggio sui vari pianeti, divenne icona e marchio di fabbrica delle scorribande di Kirk e del suo equipaggio. Tre stagioni, dal 1966 al 1969, per un totale di 79 episodi. Il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare in cui viveva Roddenberry aveva generato un futuro in cui la Terra finalmente Unita, grazie anche alla scoperta di nuove forme di vita, era ascesa a un grado superiore di maturità e coscienza creando la Federazione Unita dei Pianeti. Pace, prosperità (in perfetto stile vulcaniano) e il desiderio di conoscere altre civiltà e forme di vita senza interferire (la straordinaria Prima Direttiva).

 

GENE COLPISCE ANCORA

Se Star Trek aveva iniziato a influenzare il mondo intero generando milioni di fan e creando il fascino per una tecnologia realistica e documentata, un altro “Star” era destinato a modificare i piani dello stesso Roddenberry. Dopo due stagioni di una serie animata, prodotte e trasmesse tra il 1973 e il 1974 i tempi erano maturi per soddisfare i voraci appetiti dei fan. Nel 1978 era previsto un ritorno sull’Enterprise per una seconda serie, con l’equipaggio quasi al completo, ma l’uscita di un certo film diretto da un barbuto trentenne che rispondeva al nome di George Lucas cambiò per sempre il futuro dell’universo di Star Trek.

Niente serie TV, era venuto il momento di accodarsi alla travolgente onda che Star Wars aveva generato e sbarcare sul grande schermo. Di materiale disponibile proveniente sia dalle tre stagioni tv precedenti, sia da tutti gli script più o meno completi dell’abortita seconda serie, ce n’era parecchio. E in più l’idea di poter dilatare i tempi compressi e viziati dagli spazi pubblicitari fu un’ulteriore spinta per Roddenberry a fare il grande passo. Non solo: contrapporre alla sognatrice fanta-favola starwarsiana la ragionata e solida fantascienza trekker era una bella sfida. Il tabù infranto portò un buon successo di pubblico: iniziava l’era di Star Trek al cinema.

 

UN RITORNO LUNGO VENT’ANNI

Il successo di Star Trek: The Motion Picture diede il via a una lunga serie di pellicole (destinata a non interrompersi mai) che a distanza di due o tre anni l’una dall’altra traghettarono il franchise verso metà degli anni ‘80. La qualità dei film (L’Ira di Khan, 1982, Alla ricerca di Spock, 1984, e Rotta verso la Terra, 1986) fu altalenante ma da un certo punto di vista non venne mai abbandonata la matrice televisiva che aveva dato origine alla serie. Dal secondo al quarto episodio la trama si sviluppava in modo lineare, iniziando un film riprendendolo più o meno da dove la trama del precedente si era arrestata. Da un punto di vista dei contenuti e dell’impianto, Star Trek non subì modifiche significative in queste pellicole ridisegnandole piuttosto come episodi lunghi affidati, in alcuni casi, alla regia degli stessi attori (Leonard Nimoy/Spock curò quella del terzo e quarto capitolo). Forse anche per questo, a vent’anni di distanza, Roddenberry decise di ritornare all’origine di Star Trek: la televisione. Nasceva nel 1987, dopo 21 anni dal debutto televisivo, Star Trek: The Next Generation (TNG) e con esso riprendevano i viaggi dell’Enterprise.

 

ATTRAVERSO LE GENERAZIONI

L’impianto narrativo che tanta fortuna aveva portato a Roddenberry venne riproposto invariato nello spirito: TNG raccontava i viaggi dell’Enterprise e del suo equipaggio «là dove nessun uomo è mai giunto prima». Dopo le finestre tematiche aperte e poi richiuse dai film, lo spirito pionieristico ritornò in grande stile con un ricco equipaggio composto da otto elementi fissi (a guidarli il Capitano Jean Luc Picard interpretato dal teatrale Patrik Stewart e che molto si distaccava dal fascinoso playboy che era Kirk) di cui due alieni e un androide (Data, interpretato da Brent Spiner, l’alter ego del futuro di Spock). Nella continuity narrativa erano passati 78 anni dalle gesta di Kirk: tecnologia ed equilibri socio-politici della Federazione avevano subito interessanti mutamenti. I Klingon non erano più nemici e soprattutto ogni nave spaziale possedeva un ponte ologrammi: senza saperlo Roddenberry aveva creato un oggetto talmente potente da distruggere, in modo indiretto, le avventure televisive del franchise. Con 178 episodi e sette stagioni, l’universo di TNG si allargò raggiungendo picchi narrativi eccelsi (i Borg, per dirne uno) ma il più grande miracolo fu uno e uno soltanto: una nuova generazione di fan si avvicinò a Star Trek garantendo un’apparente immortalità alla creatura di Roddenberry. Questa genesi si condensò in Generazioni, settimo capitolo cinematografico del 1994 che, in coincidenza con la fine televisiva di Next Generation, segnò il vero passaggio di consegne tra Kirk e Picard che incontrandosi fisicamente crearono un corto circuito narrativo il cui scopo era dare un forte impulso a quello che sarebbe venuto dopo.

 

LA RINASCITA TELEVISIVA

Con TNG non solo Star Trek era ritornato alle sue origini televisive ma aveva creato qualcosa di inedito fino a quel momento: film e serie tv iniziarono a coesistere dapprima con le ultime due avventure del primo equipaggio capitanato da Kirk, poi con quattro film dedicati a Picard e alla Next Generation. Nel 1991 Gene Roddenberry morì e le cose, dalla sua scomparsa, cominciano a cambiare: Star Trek vantava un successo così grande che iniziò una staffetta tra le serie televisive. Nel 1993, quando ancora stava andando in onda la sesta stagione di TNG prese il via Deep Space Nine che procedette per un anno insieme a Picard e al suo equipaggio, fino al maggio del 1994 quando con Ieri oggi e domani, un episodio straordinario, venne scritta la parola fine sulla lunga odissea della  Next Generation. Insomma, Star Trek era tornato sul piccolo schermo dopo un silenzio di vent’anni facendo persino coesistere due serie in contemporanea: un clichè destinato a ripetersi con Vojager, che prese il testimone da Deep Space Nine (pur coesistendo con esso per diversi anni) e che lo passò all’ultima serie Enterprise. Come se non bastasse, parallelamente a questo, la Paramount continuò a produrre film: dopo Generazioni (e dopo la fine della serie TNG) Picard tornò ben altre tre volte. Nel 1996 con Primo contatto, nel 1998 con Insurrection e nel 2002 con Nemesis. Dal 1986 al 2005 (anno conclusivo della quarta stagione di Enterprise) Star Trek e il suo universo crebbero senza sosta mantenendo sempre una coerenza di fondo straordinaria. La continuity, struttura fondamentale alla quale i fan erano, e sono, giustamente attaccati, non venne mai messa in pericolo nemmeno nelle ultime due stagioni di Deep Space Nine quando la guerra contro il Dominio creò alcune della pagine più bella nella fantascienza televisiva.

 

LA NASCITA DEL MOLOCH?

Mantenere una coerenza narrativa costante non è cosa facile. Farlo per più di dieci anni può essere quasi impossibile (non c’è riuscito nemmeno Lucas che aveva a che fare con tre pellicole soltanto). Vojager, che narrava le avventure di una piccola nave proiettata da un’entità aliena a migliaia di anni luce dalla Terra, dribblò questo problema. Concepita per prendere il posto di TNG come serie di esplorazione, mentre Deep Space Nine era improntata sulla staticità della stazione orbitante ben insediata nell’arcinoto Quadrante  Alfa, Vojager svolse le sue trame in un Quadrante del tutto ignoto potendo sdoganare la creatività degli sceneggiatori dai limiti di una continuity tanto straordinaria quanto pericolosa da intaccare. Con Enterprise, ultima serie conclusasi nel 2005 e ambientata nel passato terrestre, prima della Federazione e a ridosso della tecnologia a curvatura, questa tendenza venne mantenuta. Ma se la struttura complessiva non correva rischi, lo stesso non si poteva dire per la coerenza interna alla serie. Nulla di gravissimo, ma gli standard di Star Trek avevano abituato i fan a essere esigenti. Discussa e discutibile, Enterprise venne interrotta chiudendo uno dei tanti cerchi mistici trekker: il ponte ologrammi, che tanto aveva donato a TNG in termini di trame e idee diveniva ora il seme della discordia. Come si poteva accettare anche solo l’idea che quattro stagioni fossero ridotte a mere riproduzioni di un ponte ologrammi manovrato dall’Ammiraglio William Riker (Primo Ufficiale di TNG)? Che tutto quello mostrato fino a quel momento, per quanto ispirato alla realtà, avesse il rilievo di una ricerca storica del futuro? Se un chiodo doveva essere piantato sulla bara dell’avventura televisiva trekker, questo era uno dei più definitivi. Enterprise, inconsapevolmente, aveva portato al suo interno i semi di ciò che sarebbe divenuto il destino di Star Trek. Da un lato  l’11 Settembre del 2001 e i profondi mutamenti a esso connessi si erano insidiati nella purezza trekker militarizzando, a detta di alcuni, Enterprise. Dall’altro la chiusura della serie aveva preparato il terreno per ciò che doveva succedere nel 2009. Forse il mondo di Star Trek era divenuto così complesso e ricco che ogni passo rischiava di frantumare una continuity fino a quel momento perfetta, tanto da costringere a un colpo di spugna così netto come la chiusura di Enterprise?

 

LOST IN SPACE?

Dal 2005 al 2009, il gelo siderale. Per la prima volta dal 1986 la televisione era precipitata nell’assordante silenzio privo delle note di Jerry Goldsmith, in una qualsiasi delle loro declinazioni. Proprio mentre le serie televisive fiorivano una dopo l’altra (il 2004 è l’anno del debutto di Lost) raccogliendo la smarrita eredità creativa che il cinema sembrava incapace di riprodurre, uno degli uomini simbolo di questo periodo venne precettato per un nuovo film di Star Trek. A sette anni di distanza dal Nemesis che tanto aveva fatto storcere il naso, J.J. Abrams, fresco del successo di Lost, era chiamato a rianimare il franchise sopito in un coma profondo. Star Trek (2009) fu una delle operazioni più rischiose e al tempo stesso riuscite degli ultimi anni. Il moloch della continuity pesava tantissimo ma al tempo stesso come potevano buttare alle ortiche mezzo secolo di tradizione? Detto fatto: il giovane James Tiberius Kirk, circondato dal suo giovanissimo equipaggio, dovette affrontare dei terroristi del tempo che, distruggendo il pianeta Vulcano, spazzarono via in un solo, rapido colpo, ogni ingombro. Come in Generazioni, anche J.J. Abrams confezionò un passaggio di testimone tra Leonard Nimoy (il vecchio Spock) e Zachary Quinto (il nuovo e più illogico vulcaniano). Il franchise era risorto nel migliore dei modi: i fan di vecchia data sarebbero stati deliziati da ogni ammiccamento a quanto era stato costruito in cinquant’anni, mentre chi si avvicinava per la prima volta al mondo avrebbe trovato qualcosa di moderno a cui affezionarsi.

 

FUORI DALL’OSCURITA’?

Perciò l’evoluzione, qualche caduta e i grandi successi della creatura di Roddenberry hanno quasi obbligato Abrams a trasformare l’universo di Star Trek in qualcosa di nuovo e duttile, portandolo fuori da quasi un lustro di buio. A giugno del 2013 proverà a stabilizzare il suo rinnovamento con il secondo capitolo del risorto franchise. Into Darkness, da quello che è dato sapere senza addentrarsi in spoiler selvaggi, è decisamente figlio del suo tempo. Come per il suo predecessore, l’esplorazione di strani, nuovi mondi pare accantonata in favore di qualcosa che le nuove generazioni possano sentire come drammaticamente più vicino. è una regola che in realtà vale per molto dell’attuale cinema oltreoceano e che affonda le sue radici nell’11 settembre: Abrams nel suo primo Star Trek raccontava, in sostanza, di vendicativi terroristi intenti a distruggere pianeti come rappresaglia per un torto subito. In Into Darkness il solo nome del villain richiama qualcosa di molto simile: il poliedrico Benedict Cumberbatch che, infatti, interpreterà un enigmatico terrorista di nome Khan. Una strizzata d’occhio alla serie classica e al secondo, splendido, film: L’Ira di Khan e al tempo stesso la promessa che il nemico della Federazione sarà figlio della Federazione stessa. Il titolo alternativo, poi, poteva essere Star Trek: Vengeance e questo sembra rafforzare la tesi di tematiche molto attuali alla base della storia. Abrams, pur essendo meno cerebrale di Nolan, non lavora solo di pancia e il senso della meraviglia va a braccetto con trame articolate e dai risvolti complessi (Lost ne è un esempio). Spizzicando il web, la parte terrestre e terrena del film declinerà in una caccia all’uomo tra spazio e pianeti, ridando in questo modo un giusto equilibrio a un film che, comunque, è Star Trek.