Mad Max è tornato sulla strada

Il papà di Fury Road ci racconta i retroscena del suo ultimo film
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George Miller, il regista del primo Interceptor e dell’ultimo Fury Road, racconta tutti i retroscena del nuovo film e svela le linee di continuità del suo racconto rispetto al film di trentasei anni fa.

Ti ricordi quando ha iniziato a formarsi nella tua testa il personaggio di Max Rockatansky? Da cosa è stato ispirato per creare il mondo e il personaggio di Mad Max?
Sono sempre stato interessato al cinema. Ho studiato medicina e durante quel periodo, disegnavo e pitturavo parecchio. Successivamente mi sono appassionato al linguaggio del cinema che, dopotutto, ha poco più di cento anni. La sintassi è stata forgiata nell’era del muto e, in particolare, nei film di inseguimenti – che poi sono i film d’azione, quelli con Buster Keaton, i western a una bobina, e così via. Dopo sono venute le corse con le bighe di Ben Hur e tutti i film d’azione automobilistici. Per cui, da quando ho deciso di provare a fare un film, l’aspetto che più mi ha guidato era l’azione. Detto questo, ho trascorso del tempo lavorando come medico del pronto soccorso e ho visto innumerevoli incidenti d’auto. Un’esperienza che mi ha profondamente segnato. E di cui più tardi ho fatto tesoro in Mad Max. Il primo Mad Max aveva una storia molto intensa, per non dire iperbolica. Sarebbe stato troppo eccentrico, estremo, se fosse stato ambientato nel mondo contemporaneo. In secondo luogo non potevamo permetterci di girare ai giorni nostri perché avremmo dovuto riempire le strade con molta gente, molte macchine, creare posti di blocco e così via. Per cui decisi di farlo più al risparmio, ambientandolo in un prossimo futuro dopo una non meglio precisata apocalisse. Molto del personaggio di Max arriva, ovviamente, da Mel Gibson. Ci trasferì molto di sé. È stato uno dei primissimi suoi film, appena uscito dalla scuola di recitazione. Tutto questo ha portato al primo Mad Max. Non sapevo se sarebbe stato visto da un grande pubblico, ma quando uscì mi accorsi di tutto quello che avrei potuto e dovuto fare, ma che non feci perché era la mia prima volta su un set cinematografico e avevo imparato moltissimo. Per cui Interceptor – Il guerriero della strada diventò un’opportunità per mettere all’opera tutte le cose che avevo appreso. Inoltre, avevamo a disposizione un budget più grande, per cui mi sono potuto permettere location più remote e un mondo post-apocalittico più credibile. Idem per Mad Max: Oltre la sfera del tuono.

Dalle loro prime distribuzioni, nel momento in cui i film di Mad Max hanno preso slancio, sono diventati leggendari. Ti ha sorpreso la risonanza in tutto il mondo che hanno avuto?
Assolutamente sì. Il primo film è stato così complicato da fare che non pensavo neanche di riuscire a distribuirlo, ma quando per fortuna uscì sembrò avere una grande eco in tutto il mondo. La stessa cosa avvenne con il secondo film. Uno dei test per capire la potenza di un film, e solo il tempo lo dirà, è l’impatto che ha sulle diverse culture. Nel mio caso è successo. In Giappone hanno chiamato Max un Samurai Ronin solitario. In Francia hanno visto il film come un western su quattro ruote e Max come il pistolero. Mentre in Scandinavia alcuni vedono in Max un guerriero vichingo che vaga da solo per lande desolate. Ho realizzato che inconsciamente avevo attinto ai più classici degli archetipi mitologici. Non era mai stato mia intenzione. Non ne ero neanche consapevole. Per dire che la vanità dell’artista – che in un certo senso è convinto di aver creato qualcosa di speciale – si è dissipata in certa misura. (ride) Ho capito di essere stato partecipe ignaro di quello che Carl Jung, Joseph Campbell e altri hanno definito l’inconscio collettivo.
Prima hai fatto riferimento al linguaggio cinematografico e mi chiedo se non si sia trattato solo della storia ma anche del modo in cui l’hai raccontata…
Si tratta infatti di quell’aspetto del cinema a cui sono più interessato, e uno dei motivi che mi hanno spinto a fare Fury Road. Amo quei film che sono vissuti al meglio nel buio della sala cinematografica, quei film che ti risucchiano in un mondo, come riescono a fare i più grandi brani musicali. Non importa lo stato d’animo o la predisposizione in cui si è, sei trascinato in un posto che è fuori da te, e il linguaggio cinematografico è fondamentale. Una delle cose che stanno alla base di Fury Road è la massima di Alfred Hitchcock quando parlava dei film che si possono guardare anche se sono in giapponese senza sottotitoli. Ecco, questo è quello che abbiamo cercato di fare con tutti questi film.

Quando all’inizio hai cominciato a ideare la storia di Fury Road, quanto già esisteva nella tua testa e quanto ha preso forma nel momento in cui ti sei seduto e ti sei messo a scrivere?
La cosa più bella nel fare questo film dopo tutti questi anni è stata che sono stato in grado di realizzare il suo mondo in modo ancora più completo. Non è mai mia intenzione fare sequel di niente, e per tutto questo tempo ho resistito dal fare un’altra storia di Mad Max. Pensavo che tre film fossero sufficienti. Ma sono una di quelle persone che si lascia guidare in un film dalla curiosità, e una volta che qualcosa mi afferra, non riesco più a liberarmene. All’incirca 15 anni fa, stavo attraversando a piedi un incrocio quando mi balenò in testa un’idea che pensai fosse buona per un nuovo Mad Max. Ma, ora che raggiunsi l’altro lato della strada, decisi che era meglio scacciare quel pensiero. Su per giù un paio d’anni dopo, mi trovi a fare una lunga traversata oceanica in aereo da Los Angeles a Sydney, dove vivo, e in quel particolare stato ipnagogico tra la veglia e il sonno, il film mi si mostrò. Quella piccola idea cominciata durante quell’attraversamento della strada si era in qualche modo deteriorata. Si era fatta nebulosa, tutt’altro che vivida, ma nelle 14 ore che passarono prima dell’atterraggio capii che era giunto il tempo di sedermi e darle espressione. Mi sedetti a scrivere con il co-sceneggiatore Brendan McCarthy, che è uno scrittore e storyborder straordinario, seguendo il concetto che il film avrebbe dovuto essere recitato quasi senza battute, come un film muto. Decidemmo di storyboardarlo e di lavorare con due altri artisti, Mark Sexton e Peter Pound. Noi quattro l’abbiamo pianificato, inquadratura dopo inquadratura, fino a che ci siamo ritrovati con 3.500 tavole sparse per tutta la stanza, come un graphic novel per esteso. Dopo aver messo a punto il modello visivo, un altro co-sceneggiatore è salito a bordo, Nico Lathouris, e abbiamo aggiunto i dialoghi. Così, nel corso di questo processo, abbiamo dovuto fare i conti con strategie fondamentali di design che informassero non solo il mondo e la sua organizzazione, l’equipaggiamento, i veicoli e così via, ma anche dare informazioni su chi fossero i personaggi e come parlassero.

Ci parli, allora, delle strategie di design che hanno guidato il mondo di Fury Road?
Sono più chiari e realizzati in modo più esaustivo ora che in passato. La prima regola è stata che l’apocalisse cominciasse il mercoledì successivo, e che tutto quel che vediamo nei notiziari accade in una volta sola, il collasso economico, la fine dell’energia elettrica, gli stati allo sbaraglio, le guerre per il petrolio e l’acqua, più molto altro che nessuno di noi è in grado di prevedere. È un collasso organico multiplo, come avviene nel corpo umano. Facciamo un salto di 45 anni nel futuro e troviamo che tutte le città sono state rase al suolo. La gente si massacra a vicenda riunita in gang e si è spostata verso il centro del continente. Da quel caos emerge una gerarchia dominante controllata da un signore della guerra, Immortan Joe. Il punto di forza dei film di Mad Max, e in particolare Fury Road, è che si può arretrare a un mondo più elementare. C’è un equilibrio molto chiaro in questa gerarchia, con i pochi potentissimi che letteralmente governano la moltitudine e la morale. In questo mondo arriva Max, che sta semplicemente cercando di esorcizzare i suoi demoni e trovare un significato. Come dice lui stesso, è inseguito dai vivi e dai morti. Viene raccolto da Furiosa e dagli altri che sono in cerca di qualcosa di meglio.
Parlando del cast, cosa hai trovato in Tom Hardy che si confacesse al personaggio di Max e come avete lavorato sul personaggio per reinventarlo?
Mi ricordo perfettamente la prima volta che Mel Gibson varcò la porta per Mad Max. Aveva un tipo di carisma che sembrava nato da un paradosso. Ho rivisto in Tom quella stessa qualità nell’istante in cui si è presentato. Hanno in comune questa qualità paradossale insita in tutte le persone carismatiche. Hanno un’energia mascolina guidata dal testosterone, ma sono anche capaci di gentilezza e delicatezza. Possono essere accessibili e amorevoli, ma anche misteriosi allo stesso tempo. È una dinamica interessante. E sono entrambi molto belli, ma non così belli da non poter vedere oltre il volto. Ci vedi dentro. Detto questo, Tom si è calato nel ruolo a suo modo, portando qualcosa di diverso, certamente, perché è diverso sia come uomo che come attore. Un’altra cosa buffa di Tom è che è nato sei settimane prima che iniziassimo le riprese del primo Mad Max.

Furiosa è un personaggio molto insolito perché non è la fidanzata, non è la vittima e non è la donna che si comporta come un uomo. Come avete lavorato per dar vita a questa guerriera della strada?
C’è una chiave per Furiosa. È sempre una donna, ma il suo comportamento, per necessità, è al pari di un uomo. All’inizio del film, come tutti in questo mondo, Max è ridotto a uno stato animale. È virtualmente intrappolato come una bestia ed è spinto da un unico istinto, sopravvivere. Furiosa ha un obiettivo più alto e deve fare cose toste. È un personaggio che porta su di sé molta storia e tanta sofferenza. Nel suo caso ci sono pochi momenti di riflessione, deve andare ed essere una guerriera. E all’interno del mondo amplificato di Fury Road, dovevamo rendere questo aspetto il più realistico possibile. Il fatto interessante di Charlize è che anche lei, come Tom, ha in sé questa qualità del paradosso. È una donna a tutti gli effetti, ma non ha paura di confrontarsi con il suo lato maschile. Ha la consapevolezza di essere donna, eppure non è vittima della vanità che la costringerebbe ad apparire sempre al top. È stata Charlize ha decidere di radersi a zero, dicendo: «Perché mai Furiosa dovrebbe perdere tempo coi suoi capelli? Non favorirebbe la sua sopravvivenza». Il suo makeup doveva servire solo a farla sembrare più sinistra. Charlize sapeva di non doversi preoccupare di questi aspetti, e penso che sia quello che la rende una grande. Un’altra cosa di Charlize è che sognava da sempre di interpretare un personaggio come Furiosa. Ha iniziato facendo la ballerina, per cui è anche fisicamente molto talentuosa e precisa. Sapeva perfettamente cosa era o non era in grado di affrontare in termini di stunt e di combattimenti. Idem per Tom. È stato un giocatore di rugby per cui fisicamente è molto abile. C’è stata grande intesa in questo senso. Abbiamo potuto fare un film con attori che avevano la giusta fisicità per affrontare da soli la maggior parte delle scene d’azione, cosa che si è verificata con quasi tutti gli attori presenti.
Ci può parlare degli stunt e dei combattimenti più incredibili? Li avevate già previsti nello storyboard o sono stati studiati sul set?
Praticamente tutto è cominciato sullo storyboard, ed è evoluto nei personaggi e nelle loro intenzioni e relazioni. Quando è arrivato il momento degli attori e degli stuntman, la motivazione principale doveva essere quella di fare tutto per davvero. Tutto è stato coreografato come un balletto di danza classica, sul serio. Si è cominciato con lo storyboard e poi lo si è concretizzato con il coreografo dei combattimenti e gli stuntman, che hanno lavorato a stretto contatto con gli attori. Spesso però gli attori dicevano: «Questo lo faccio io», e poco dopo erano lì che stavano combattendo. Non ci siamo dovuti preoccupare delle manovre perché gli attori erano imbragati e potevamo eliminare i ganci con la CGI. Questa è la vera grande differenza tra quello che possiamo fare oggi e quello che potevamo fare 30-35 anni orsono.

E che ci dici della presenza di Hugh Keays-Byrne nel ruolo di Immortan Joe che era già stato Toecutter nel primo Mad Max?
Una delle cose che ho già raccontato del primo Mad Max è che alla fine del film eliminavamo uno dei personaggi migliori, Toecutter. C’è qualcosa di molto potente in quel personaggio. Poi abbiamo fatto gli altri due film senza di lui. Negli anni a venire, cercando di fare questo film, ero alla ricerca di qualcuno che avesse l’abilità declamatoria necessaria per impersonare Immortan Joe. Così, di punto in bianco, l’ho chiamato. Hugh ha cominciato con la Royal Shakespeare Company e ha viaggiato il mondo insieme a Peter Brook portando in scena una vecchia famosa produzione del Sogno di una notte di mezza estate, negli anni ’70. Era finito in Australia con una cooperativa di attori. Tutti gli attori del primo Mad Max erano di Sydney. Stavamo girando nella città meridionale di Melbourne e, credici o no, non potevamo permetterci di farli venire in aereo perché il budget era troppo piccolo. Il personaggio di Hugh, Toecutter, è il capo di una gang di motociclisti per cui ci disse: «Spedisci le moto via treno così poi le guidiamo noi fino a destinazione e nei mille chilometri che separano una città dall’altra avremo l’opportunità di diventare una vera gang di biker». Beh, ora che sono arrivati a Melbourne, dopo tre giorni, erano una banda di biker. E non solo. Vivevano insieme, rimanevano coi costumi per tutta la durata delle riprese e guidavano le loro moto sul set. Ovviamente la polizia li avrebbe fermati, e quando si resero conto che erano attori, gli diedero una lettera in cui veniva spiegato che facevano parte del film. Finì che per tutta la seconda metà delle riprese, la polizia scortò la banda di motociclisti sul set. Questo è il tipo che assolutamente mi serviva per Fury Road perché Immortan Joe è alla testa di molti, molti “War Boys”. Ha questi occhi meravigliosi una voce potente. Poi in realtà è un amabile orsacchiotto e porta con sé quella giocosità che lo rende perfetto non solo per interpretare il personaggio, ma per infondere energia a tutti quelli che gli stanno intorno.

Ci racconti qualcosa delle cinque mogli di Immortan?
Ho sempre inteso le mogli come quegli esseri umani immacolati che sono protetti dall’aria tossica di questo mondo, e a cui viene dato il cibo e l’acqua che a nessun altro sono concessi. Allo stesso tempo sono, però, dei beni di comodo. Parte del potere di Immortan dipende da questo concetto secondo cui è quasi una divinità, per cui la loro funzione principale è dargli un erede maschio in salute. Proprio come i monarchi nel corso dei secoli, cerca di preservare il suo potere attraverso una stirpe, per cui ha bisogno di allevatrici di bell’aspetto e in salute, per così dire. E loro hanno deciso di non permettere che succeda. Con Furiosa cercano di trovare un posto migliore dove condurre meglio le proprie vite. Per cui fare il cast delle mogli è stato un po’ come mettere insieme una squadra di calcio. Dovevano essere un’unità e avere abilità complementari, ma anche infondere al gruppo la loro individualità.