Luciano Tovoli: la luce d’Argento

Intervista esclusiva a Luciano Tovoli, il rivoluzionario direttore della fotografia di Suspiria
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Il direttore della fotografia di Suspiria, Tenebre, Il deserto dei Tartari, Professione reporter, nonché dei grandi successi di Ettore Scola e di Barbet Schroeder, Luciano Tovoli, ripercorre per nocturno le tappe di una carriera germogliata dalla passione per Ansel Adams, Edward Weston e Cartier Bresson…

So che ha appena finito di girare un film con Barbet Schroeder, a Ibiza se non sbaglio: Amnesia

Amnésia, sì. È la storia di una signora tedesca che è andata ad abitare a Ibiza cinquant’anni fa perché dopo la guerra non ha più voluto avere rapporti con la Germania: non ha più parlato tedesco per anni, non ha più letto un libro tedesco, non ha più ascoltato musica tedesca… È la storia della madre di Schroeder, che ha vissuto questa avventura solitaria, per cinquant’anni, in una casa sul mare. Finché un giorno è arrivato un giovane tedesco, ha affittato un’abitazione là vicino, ha avuto bisogno di qualcosa, ha suonato alla porta e… le ha parlato nella sua lingua.

Hanno cominciato a frequentarsi ed è nata una relazione di amicizia. Il ragazzo dice a questa donna che arriveranno sua madre e suo nonno a trovarlo e convince la donna a preparare un pranzo. E durante il pranzo, il nonno del ragazzo racconta una storia, che sembra apparentemente innocente e invece riguarda la guerra, i campi di sterminio. Con tutte le conseguenze di presa di coscienza che si possono immaginare… La donna è interpretata da Marthe Keller, mentre il ragazzo è Max Riemelt, giovane attore tedesco molto in voga adesso. 

Schroeder è uno dei registi con i quali lei ha fatto più film, credo… A quando risale il vostro incontro?

Beh, effettivamente, questo è il settimo film. Se conto quelli di Ettore Scola, forse siamo lì lì… Con Schroeder lavorava da sempre un mio carissimo amico, Nestor Almendros, insieme al quale avevo fatto il Centro Sperimentale. Schroeder mi ha raccontato che parlavano spesso di me, per via di Professione reporter, Pane e cioccolata, film che a Barbet erano piaciuti molto.

Quando Schroeder girò il suo secondo film in America, Reversal of Fortune con Glenn Close (Il mistero Von Bulow, ndr), era un film non Union e siccome Almendros in America era iscritto invece alle Union, non potè farlo. Io non ero iscritto alle Union, non avendo ancora fatto film in America; così, insieme, Barbet e Nestor, decisero di darmi questa possibilità. Quando Nestor morì, subentrai io come direttore della fotografia nei film di Schroeder.

Di Schroeder mi viene sempre in mente Inserzione pericolosa e lo associo a lei per quell’aneddoto che riguarda Bridget Fonda e Suspiria

Ah sì, mentre io stavo illuminando una scena, Bridget era legata a una sedia, immobilizzata, con lo skotch sulla bocca, e Barbet, osservandomi lavorare, disse: «Ah, vedo che stai facendo un po’ di Suspiria»… Lei cominciò a dibattersi e a mugolare: non capivamo che volesse – non si poteva levarle lo skotch dalla bocca –, così scrisse su un foglietto che non sapeva che io fossi stato il direttore della fotografia di Suspiria e che quel film le aveva cambiato la vita…

Suspiria anche a lei ha cambiato la vita…

Assolutamente: altri film importanti si allontanano nel tempo nell’interesse del pubblico, Suspiria, invece, è come se fosse una cosa di ieri. Ci sono club Suspiria a Parigi, a Tokyo, dappertutto: ovunque vado non faccio altro che parlare di Suspiria. In effetti è stato molto importante per me, nell’ambito del mio percorso di scelta dei colori, della luce.

Un film rivoluzionario…

Fecero un referendum, due anni fa, e saltò fuori che tra tutti i film girati dal dopoguerra a oggi, Suspiria è stato il film più rivoluzionario. Il più visionario. Tant’è vero che nel 2011 l’American Cinematographer mi ha dedicato 10 pagine, con bellissime foto di Suspiria. Non danno dieci pagine a nessun film. Tanto più di trent’anni fa, eh… perché stiamo parlando di un film di più di trent’anni fa! Un giornalista svedese mi ha mandato una mail, di recente: «Gentile signor Tovoli, ho studiato per anni tutte le influenze che ha avuto Suspiria in campo sia cinematografico sia pubblicitario; perché esiste un prima di Suspiria nel colore nel cinema e un dopo Suspiria…».

È stato imitatissimo, in un modo strepitoso, anche se lì per lì venne preso come un esercizio di cattivo gusto da molti; poi, dopo, hanno capito che il cinema può essere molto creativo come lo è la pittura, ma non in senso per forza classico: si può essere influenzati da Bacon o dagli artisti contemporanei o non essere influenzati per niente, come non lo ero io. Non mi sono davvero riferito a nulla facendo Suspiria. Mi dissi soltanto: «Su un film horror ho una libertà che non ho da altre parti. Cerchiamo di usarla…»

Argento in quel periodo parlava di Kokoschka, citava influenze varie. Mi sono sempre domandato se quell’uso così esasperato, delirante e geniale del colore, arrivasse da lei o se Argento le avesse dato uno spunto, il là?

Non volevo fare il film… La storia di Suspiria di DarioArgento è molto semplice e lui, Dario, la conosce benissimo. Un pomeriggio d’estate – abitavo a Roma in via Salaria allora – sentii un gran casino sotto le finestre che davano sulla strada. Mi affacciai e vidi una marea di persone che si dibattevano e si incrociavano, perché c’era un film di Argento al cinema Hollyday e lo stesso film lo davano a via Regina Margherita, a poca distanza. Gli spettatori correvano da una sala all’altra sperando di trovare dei posti liberi: tutti e due i locali erano pieni e spaccarono anche delle vetrine del cinema, mi ricordo. Così mi dissi… non avevo mai visto nessun film di Argento, perché non è che mi facesse impazzire l’horror…, mi dissi: «Un regista che muove le folle in questo modo, è interessante!».

Due anni dopo, non so perché, Argento mi chiamò. Io tentai di sconsigliarlo, perché non avevo fatto nessuna esperienza nel genere e non mi andava nemmeno tanto; ma lui insisteva, mi parlava del film e mi chiedeva che cosa volessi fare. Gli risposi: «Se si potessero lanciare dei barattoli di vernice… sai quelle per il corpo umano con cui si dipingono le modelle?… in faccia agli attori: uno rosso e uno blu dall’altra parte, e poi si girasse così, mi piacerebbe farlo…». Era presente il padre di Argento, il produttore, che commentò: «Senti, questo è pazzo, lascia perdere! Chiamiamo Guarnieri, chiamiamo chi te pare, ma lascialo perdere!». Invece questa idea colpì molto Dario. Così gli dissi che avrei fatto dei provini, li avrei stampati alla Technicolor e poi lo avrei chiamato per vederli: «Se questi provini corrispondono a quello che ti piace, facciamo il film. Altrimenti, amici come prima».

Mi feci regalare della pellicola dalla Kodak, noleggiai una macchina e con degli amici feci questi provini, in una mezza giornata, alla De Paolis, su un set che stavano distruggendo. Stampati i provini, chiamai Dario per vederli. Era già Suspiria quello che feci, esattamente Suspiria. E quando Dario cominciò a vederli, urlò, salì su una poltrona – precedendo Benigni di parecchi anni –  e abbracciò lo schermo dicendo: «Ah, questo è il mio film! Questo è il mio film!». E lì ebbi l’impressione che il film si sarebbe fatto (ride). Dopo, non si è più discusso di niente: abbiamo fatto il film a ruota libera…

Ma cosa erano esattamente questi provini?

Li avevo fatti con dei ragazzi, avevo chiamato qualche amico e qualche amica: erano riprese da fermo o anche in movimento, in certe posizioni, utilizzando delle luci che io filtravo, anziché con le gelatine colorate, tramite dei velluti. Avevo fatto fare degli schermi di velluto, rosso, blu, verde, i colori primari, mettendogli dietro dei “bruti”, delle luci potentissime che si usavano allora. Li mettevo molto vicini ai ragazzi, il velluto assorbiva il calore e diffondeva una luce che non era quella convenzionale ottenuta con la gelatina, ma era più pittorica, contemporanea. Insomma, diversa.

Tutto il film venne poi fatto con i velluti, tant’è che durante le riprese di Suspiria non si poteva più trovare un velluto colorato a Roma perché li avevamo comperati tutti noi… Questo è stato l’iter. Poi, dopo, giocò il fatto di avere stampato in Technicolor, perché ricordiamoci che Suspiria è l’ultimo film occidentale stampato con il sistema delle matrici Technicolor, cioè delle tre matrici bianco e nero imbibite di colore, dei colori fondamentali, e poi stampate una dopo l’altra su un supporto. Una volta stampate le copie di Suspiria, queste macchine vennero smontate e inviate in Cina. Dopodiché, dalla Cina arrivò Lanterne rosse, film meraviglioso, Technicolor cinese.

E in Cina hanno continuato ad adoperare il sistema di stampa Technicolor tradizionalissimo, molto lento, per una decina d’anni, poi hanno interrotto, sono passati al sistema convenzionale di stampa Monopac, senza le tre matrici, e alla fine hanno abbandonato anche loro la pellicola…

Tenebre, fotograficamente, era stato affrontato usando una chiave del tutto diversa…

Sia Argento sia io abbiamo detto: «Suspiria è un capitolo chiuso. Ora faremo una cosa completamente diversa. E, infatti, in Tenebre abbiamo creato una iperilluminazione notturna, dove non c’era spazio né per l’assassino né per l’assassinando, diciamo così: non c’erano spazi di ombre. Tenebre era un film senza ombre e senza colori o con colori estremamente controllati. Mi piace altrettanto di Suspiria, ma non è famoso nello stesso modo.

Vorrei parlare della sua unica regia: Il generale dell’armata morta

Quell’idea nasce mentre faccio un film con Marco Ferreri, che era L’ultima donna. Ne ho fatti due con Ferreri, l’altro era Ciao maschio. Ferreri era un pigro, un pigro terribile, per cui a volte, nelle pause, si stendeva sul pavimento e dormiva. Io intanto lavoravo: «Scusa, Marco, gentilmente: devo mettere un carrello, ti puoi spostare?»; «Sì, sì, sì, metti pure il carrello…» e intanto mi guardava da terra, sornione come era lui, che si accorgeva veramente di tutto. Mi disse: «Luciano, ti voglio produrre un film. Tu devi fare il regista… raccontami qualcosa, dammi uno spunto…».

Così a cena gli raccontai un paio di storie, perché, effettivamente, avrei voluto fare un film da regista: un esperimento, da direttore della fotografia che tenta di capire l’approccio del regista. «Mi hanno parlato di un libro…», mi fece Ferreri, perché poi lui diceva che non leggeva, ma non era vero, «un libro che ha Marcello Mastroianni, in francese, che si intitola Il generale dell’armata morta…», non esisteva ancora la traduzione italiana; «Chiama Marcello e digli se te lo manda». Mastroianni mi passò il libro: in una notte lo lessi e la mattina dopo domandai subito a Marcello se avrebbe fatto un film con me come regista tratto da quel libro. Lui: «Produzione, portatemi un foglio con una penna!», e scrisse: “Farò Il generale dell’armata morta con Tovoli, più altri due film da determinare”. Da lì iniziò tutto.

A Parigi riuscii a comperare i diritti del romanzo di Ismail Kadare e andai a trovare Michel Piccoli, che conoscevo bene, per offrirgli il ruolo del cappellano: «Non solo io voglio fare il ruolo del cappellano, ma voglio anche coprodurtelo, il film». E alla fine è rimasto lui il produttore principale. Non si è girato in Albania come previsto all’inizio, perché ci cacciarono quindici giorni prima delle riprese; ma sono stato molto contento di questo: perché ho cambiato formato, ho usato il Cinemascope e l’ho girato in Abruzzo, che era, paesaggisticamente, molto più bello dell’Albania.

Qual è stato il suo primo film come direttore della fotografia?

Banditi a Orgosolo, dove ero co-direttore della fotografia con Vittorio De Seta; lui stava in macchina e io misuravo e facevo la fotografia, insieme a lui. Solo che quando siamo arrivati a firmare la fotografia, ci siamo detti: «Bene, adesso facciamo i titoli, come ci mettiamo?». Ebbi uno scrupolo e pensai, nella mia ignoranza totale, allora, di come funzionavano le cose nel cinema: «Io devo lavorare: se mi metto come direttore della fotografia insieme a te non mi chiamerà nessuno, perché sono giovane, ho solo vent’anni; mi accredito come operatore di macchina»… e non mi ha ugualmente chiamato nessuno (ride), perché non si chiama un operatore di macchina che non si conosce per niente. Andò così.

Banditi a Orgosolo prese un Nastro d’argento per la fotografia e De Seta, un po’ egoisticamente, non disse niente su questo, che avevo curato la fotografia insieme a lui. Poi abbiamo fatto Diario di un maestro, che praticamente ho girato tutto io, con la macchina a mano, e De Seta, trent’anni dopo, ebbe a dire: «È un film che dovevamo firmare insieme io e Luciano Tovoli». Eh Vittorio, ma era troppo tardi ormai…

Accidenti! Diario di un maestro è un’opera magistrale, una delle cose davvero più belle che si siano mai viste in televisione…

Sì, la considero la cosa più bella che ho fatto. Se dovessi scegliere qualcosa tra tutto ciò che ho fatto, per primo metto Diario di un maestro. Lì trovai proprio la formula. De Seta lo aveva iniziato mentre io stavo lavorando a un film di Fabio Carpi, e così lui chiamò un simpatico operatore svizzero adesso anche molto in voga… ci lavora Martone… si chiama Renato Berta, ed è un amico. Loro avevano messo due carrelli nell’aula scolastica ricostruita in uno studio televisivo, e i ragazzi non facevano che guardare in macchina. Dopo una settimana litigarono perché non riuscivano a combinare nulla e Berta se ne andò. Avevo appena finito il film di Carpi, quando De Seta mi chiamò, disperato: «Luciano, devo restituire i soldi alla Rai perché non riesco a fare ‘sto film, i ragazzi guardano sempre in macchina!».

Andai a vedere il posto dove si girava e mi venne un’idea, subito: «Facciamo una cosa: prendiamo a noleggio una Eclair 16millimetri, io mi metto in aula, Bruno Cirino fa la sua lezione, tu stai fuori dall’aula – dissi a Vittorio – perché sei ingombrante – non c’era il loop per controllare la ripresa, ancora – e io ti faccio il reportage sulla lezione. Poi andiamo da Vittori, lo stampiamo, lo vediamo e mi dici se è possibile». Così facemmo: io giravo improvvisando quel che c’era da improvvisare. De Seta ha visto il materiale soltanto dopo e da Vittori lo vidi piangere dalla gioia: «Oh Dio mio, si può fare, allora!».

Così è nato Diario di un maestro. Fu la mia performance più bella come cinematographer. Era il 1971, perché poi questo lavoro mi ha portato ad Antonioni. Diario di un maestro fu un successo clamoroso, in televisione si parlò di dodici o quattordici milioni di spettatori, e anche Antonioni restò incantato da questa cosa: mi chiamò e mi portò in Cina con sé nel 1972…

Cina, quindi, fu il primo lavoro fatto con Antonioni…

Sì, un reportage che ho girato, anche quello, tutto macchina a mano, senza mai fare un’inquadratura sul cavalletto, praticamente. Girando molte cose da solo, perché Michelangelo Antonioni la mattina non si alzava, era stanco: io con la troupe uscivo per le strade di Pechino e giravo, giravo, giravo senza dire niente ad Antonioni. Lui scoprì dopo, a Roma, tutto il materiale che avevo filmato. A me non mi fermava nessuno…

Dopo fotografò Professione reporter

Feci Pane e cioccolata, Mordi e fuggi di Dino Risi e poi, mentre stavo terminando il film di Brusati, dove avevo superato di tre mesi il tempo di lavoro, cambiando produttori eccetera, mi chiamò Antonioni: «Tra una settimana comincio un film a Monaco di Baviera, cerca di esserci…». Lasciai una settimana Pane e cioccolata e arrivai sul set di Professione reporter senza conoscere la troupe, senza avere letto la sceneggiatura, senza avere fatto i sopralluoghi e senza che Antonioni mi spiegasse cosa facevamo. Inventai giorno per giorno. Alla fine del film, gli domandai: «Senti, Michelangelo… – chiaro che il viaggio e il film in Cina avevano smontato quella sorta di timidezza che potevo avere di fronte a un grandissimo come era Antonioni all’epoca, perché eravamo diventati amici nonostante la differenza di età – … ma com’è che hai chiamato me per questo film? Per la Cina lo capisco, avevi bisogno di un giovane reporter che avesse studiato alla perfezione i capolavori del maestro, meritavo di farlo; però dopo quell’esperienza, io non potevo immaginare che mi richiamassi per un film simile!».

Mi rispose: «Ti ho chiamato perché sei ignorante!»; «No, guarda, ho pure studiato all’Università a Pisa, lingue e letterature straniere! Perché mi dici che sono ignorante???»; «No, non è che non sei colto; è che non hai i vizi che hanno i tuoi colleghi e che poi avrai anche tu tra una decina di anni». Cioè, i miei “errori” gli sarebbero serviti per dare al film un tono di fotografia anche brutale, realistica, non iperraffinata come avrebbero fatto altri colleghi. Tecnicamente, in Professione reporter, ho realizzato quell’ultima celebre inquadratura che lui voleva fare ma non si sapeva come fare.

L’ho girata trovando il mezzo, perché avevo fatto un pubblicità a Londra in cui avevo utilizzato una ripresa da elicottero. Era la prima volta che apparivano questi della Wescam con la loro macchina da presa attaccata all’elicottero… Erano dei piloti dell’esercito canadese che avevano disegnato una “palla” all’interno della quale si piazza la macchina da presa, il tutto fissato all’elicottero in maniera molto stabile… Mi ricordai di loro, li chiamammo e realizzammo l’inquadratura con questo sistema. Fu una cosa piuttosto lunga e laboriosa.

Una domanda rapida su Enzo Muzii, con il quale fece La macchia rosa e Come l’amore… Quest’ultimo viene dato come il suo primo film, ma abbiamo già chiarito la faccenda di Banditi a Orgosolo

Sì, dal punto di vista dell’ufficialità, Come l’amore, del 1968, è il mio primo film. EnzoMuzii era un giornalista, un intellettuale, anche, in qualche modo, un po’ un perditempo, nel senso affettuoso del termine. A un certo punto si era convertito alla fotografia, era diventato un fotografo, raffinatissimo nei ritratti e nel colore, e siccome era un appassionato di cinema, pensò di passare dalla fotografia al cinema. Il primo film fu in bianco e nero ed era facile lavorare con lui: tendeva a fare delle foto e io non chiedevo di meglio, mi piaceva l’idea che ogni inquadratura fosse una bella foto. Girammo Come l’amore. Poi  fece un viaggio in India, dove raccolse del materiale, si entusiasmò del colore e quindi facemmo La macchia rosa. È stato un rapporto bellissimo con Muzii.

Anche L’altro Dio di Bartolini è interessante…

Bartolini fu un grande amico, un frequentatore di casa mia per vent’anni. Era un letterato e uno storico passato alla sceneggiatura ma il passo successivo dalla sceneggiatura al set cinematografico, forse non era il suo forte. Fece questo film come una sorta di esperimento, una storia girata a Mestre che aveva a che fare con i giovani e con le fabbriche, quindi un film anche operaistico se si vuole. Il racconto della vita di un personaggio femminile immerso in questo contesto.

Lei parla sempre benissimo del Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini…

Eh, qui siamo al massimo, certo. C’era implicato il mio grande amico, fraterno, l’unico grande amico che ho, Jacques Perrin, attore protagonista nonché produttore del film. Poi, il ricordo di un regista meraviglioso come Zurlini, che aveva una precisione nell’inquadratura, nel movimento di macchina. Fu per me una lezione strepitosa, indimenticabile. Ne è stato fatto un restauro in Francia che è durato un mese, spendendo un sacco di soldi e ora esiste questa copia francese del film che è splendida.

Ecco, ma il rapporto con questi registi, parlavamo di Argento, poi di Antonioni, ora di Zurlini, era sempre idilliaco oppure nascevano dei conflitti su modi magari differenti di intendere la luce, di illuminare il film?

Sono stato estremamente fortunato fino a oggi, i registi mi hanno sempre lasciato la briglia sul collo lenta e io, dal punto di vista della luce, ho fatto sempre quello che ho voluto. Anche con Antonioni. Ricordo che una sola volta Michelangelo mi obiettò qualcosa: avevo illuminato la hall di un grande albergo di campagna, in Spagna; lui venne, guardò e con una cortesia estrema, ma avrebbe potuto dirmelo come voleva, anche incazzandosi, non mi sarei meravigliato, mi fece: «Luciano, io, scrivendo, avevo immaginato questo ambiente un pochino più scuro»; «Maestro, tra cinque minuti sarà più scuro».

È stata l’unica osservazione sulla luce che in ottanta film ho ricevuto da qualcuno. Perché per il resto, tutti hanno capito che la luce è il mio dominio. Nessuno mi ha mai detto niente su questo. Ci sono stati solo due registi un po’ “difficili”: un francese, Maurice Pialat, con il quale ho fatto due film splendidi: Nous ne vieillirons pas ensemble che in Italia si intitolava L’amante giovane, meraviglioso, un grandissimo film, e poi Police. Il secondo regista è Nanni Moretti, con il quale abbiamo fatto Bianca e lì ci sono stati dei momenti di attrito. Gli unici due su cinquanta registi.

La passione per la luce, quando le è nata?

Mi sono innamorato della fotografia, prima di tutto. Quando facevo il liceo scientifico a Piombino, ho scoperto tre fotografi: uno è Ansel Adams, l’altro Edward Weston e Cartier Bresson, il più fulminante. Poi un giorno ho visto una foto con un signore che aveva dietro un’enorme macchina da presa; lui era una silhouette, non si vedeva nemmeno chi fosse, era irriconoscibile. Mi colpì la macchina e cercai di scoprire chi fosse questo signore; a quel punto, scoprii che esisteva la figura del direttore della fotografia; mi chiesi: «Beh, dov’è che si studia questa cosa?». In quel momento studiavo a Pisa lingue e letterature straniere e, informandomi, scoprii l’esistenza del Centro sperimentale di cinematografia. Era il 1956.

Andando lì, conobbi Nestor Almendros, Manuel Puig, che aveva scritto Il bacio della donna ragno, e l’anno dopo Garcia Marquez… questa era la compagnia che frequentai al Centro. Finito il corso, il direttore mi disse: «Guarda Tovoli, tu non hai dimostrato molte attitudini per questa professione, per cui non ti facciamo fare il saggio finale e ti mettiamo vicino al più bravo della scuola, perché i saggi costano un sacco di soldi…»; «Perfetto!», gli risposi, e uscendo dalla porta della direzione presi il treno, me ne tornai a Piombino e andai sulla spiaggia – era pomeriggio – a fare il bagno. Dopo tre mesi mi è arrivato il diploma del Centro (ride). Rassicurò i miei genitori, che erano molto inquieti che non avessi questo cacchio di diploma. Poi venni a Roma. Mi dicevano: «Ecco, adesso farai il secondo assistente operatore per un paio d’anni, poi farai l’assistente operatore per cinque anni, poi l’operatore di macchina per altri dieci anni, e poi, a 45 anni, farai la direzione della fotografia»; «Eh no! Io ho un diploma su cui sta scritto che sono cineoperatore, quindi da oggi dovrei poter fare la fotografia di un film. A Roma qualcuno che crede nei diplomi ci sarà pure!».

Fu Giulio Questi, altro mio grandissimo amico, che mi presentò a Vittorio De Seta, uno che credeva nei diplomi, perché, essendo lui al di fuori del cinema, completamente… non so: c’era un ragazzo che gli portava il caffè dal bar e lo aveva trasformato in assistente operatore, per dire; Vittorio non voleva avere contatti con il mondo del cinema, assolutamente; era del tutto autonomo, si comperava la macchina da presa, la pellicola, faceva tutto lui; e quindi un ragazzo che sapesse fare tutto e che arrivava dal Centro sperimentale, per lui era una cosa incredibile. Gli feci vedere il diploma e mi disse: «Va bene, partiamo! Andiamo a fare un documentario ad Orgosolo, staremo lì una decina di giorni». Dopo cinque mesi siamo tornati con Banditi a Orgosolo.

Quando l’idea del documentario si era trasformata in quella di un film, Vittorio aveva cominciato a far venire dei veri direttori della fotografia, ma fu un po’ un disastro. Anche un grande come Marcello Gatti venne e rimase tre giorni perché non si sono incontrati con Vittorio. Così ci ritrovammo soli: un giorno, andando a girare una cosa, De Seta mi chiede: «Questo è l’esposimetro: lo sai usare?»; «Certo, ho fatto il Centro sperimentale!»; «Bene, misura!», disse mentre stava in macchina. «Ecco, ora metti il diaframma, fai questo, fai quello!» e così, collaborativamente, abbiamo continuato cinque mesi. Poi ho fatto quella dannata scelta di non mettere il mio nome alla fotografia…

Ma questa paura di mettere il proprio nome come direttore della fotografia da cosa nasceva? Non ho capito bene la ragione…

Avevo allora ventitre anni e se non avevi quarant’anni nessuno ti prendeva come direttore della fotografia. Nessuno ti avrebbe affidato la fotografia a vent’anni. Era questo il punto. Io però ero un proletario, dovevo lavorare. Il problema era che non riuscivi a venire fuori. O eri inserito o lavoravi dieci o quindici anni con un grande direttore della fotografia. E a quarant’anni emergevi. Dovevi fare per forza quella gavetta. Dopo Banditi a Orgosolo si sapeva, nell’ambiente, che l’avevo fatta anche io la fotografia con De Seta, ma quando mi chiamavano si immaginavano che fossi un italo-americano, un italo-australiano che aveva fatto carriera all’estero e che a cinquant’anni tornava in Italia.

Sono andato a Parigi con De Seta, dopo qualche anno dal film, e all’aeroporto venne un direttore di produzione a prendermi, con il cartello “Tovoli”. Quando mi presentai, questo mi disse: «Io aspetto il direttore della fotografia Tovoli!»; «Sono io!»; «Ma lasci perdere, scusi…» e fece per andarsene. «Non faccia lo stronzo, chiamiamo il signor De Seta che sta già in albergo a Parigi e le spiegherà». Non credeva che fossi io: ero troppo giovane.

Lei ora cura questo Festival Terre di cinema, dedicato all’arte e alla tecnica della fotografia cinematografica…

Ho sempre organizzato festival dappertutto. Un grande festival lo facemmo all’Aquila, dal 1984 al 1992, io e Gabriele Lucci, dedicato alla fotografia cinematografica. Ora di festival di questo tipo ce ne sono diversi, ma ho incontrato Vincenzo Condorelli, grande appassionato e che sapeva di questo mio passato da organizzatore, il quale mi ha proposto di mettere in piedi in Sicilia un piccolo Festival internazionale dedicato ai direttori della fotografia, invitando studenti di cinema di tutto il mondo. Ho accettato volentieri, ho appoggiato l’iniziativa che è adesso arrivata al quarto anno.

Sono sempre venuto tranne l’anno scorso che stavo lavorando. Ho tenuto una masterclass e abbiamo proiettato un film stupendo che ho rivisto commuovendomi, Il mistero di Oberwarld di Antonioni, un’opera eccezionale che mi ha fatto capire a trent’anni di distanza quanto aveva intuito Michelangelo. Nel 1979 “alta definizione” nessuno aveva la più pallida idea di che cosa significasse. Però lui aveva intuito tutto, sapeva che si sarebbe andati oltre la pellicola e che un artista cinematografico sarebbe stato più libero – cosa che non sta purtroppo accadendo, per ora – di esprimersi visivamente a un altro livello.