Featured Image

Strade di fuoco. La città nel cinema criminale americano anni ’80

Autore:
Matteo Berardini
Editore:
Bietti Edizioni

Il nostro giudizio

Esistono tanti modi per approcciare il cinema, e il genere, anche se non sembra nella nostra epoca di recensioni standardizzate e ripetute ad libitum. Ma ogni tanto c’è qualcuno in grado di rovesciare il prisma, sbirciare sotto il tavolo, guardare alle cose da un’altra angolazione. E farcele vedere con nuovi occhi. È ciò che accade leggendo Strade di fuoco. La città nel cinema criminale americano anni ’80 (edizioni Bietti), il libro del critico cinematografico Matteo Berardini, cultore di cinema all’università di Tor Vergata, direttore della rivista Point Blank. Come dice il titolo, preso in prestito da Walter Hill, qui il punto di ingresso è proprio la città. Il cinema statunitense degli anni Ottanta, decennio decisivo nella riconfigurazione dell’immaginario che poi – dopo varie trasformazioni – arriva fino a noi, viene riletto seguendo il luogo chiave di quella mitologia, il grande archetipo, ovvero la metropoli. Non è un caso che in copertina campeggi il Travis Bickle di Taxi Driver: colui che, scrive Berardini, guida per  la città «ospite della sua auto e del suo sguardo psicotico, mentre la strada, le luci e le persone dall’altra parte del vetro si confondono in una pasta colorata priva di forma, distorsione espressionista che accentua la dimensione soggettiva».

Prima di questo, però, c’è l’introduzione che detta le regole del gioco: seguiamo un percorso cronologico attraverso gli eighties e le sue opere. La premessa è una critica di contesto, ossia il tratteggio della situazione politica e sociale dell’America. Il nome chiave è Ronald Reagan, naturalmente, presidente decennale (1981-89) con la sua dottrina economica e la retorica liberista capace di far sognare, alle urne ma non nella realtà. È un moloch che genera mostri. Lo spiega bene lo studio analizzando Essi vivono di Carpenter, con gli occhiali speciali che permettono di “vedere” la verità, e mettendo allo specchio due città, New York e Los Angeles, come vengono inscenate in Taxi Driver e Distretto 13. Città che, nel corso del decennio, si degradano di pari passo col fallimento della ricetta reaganiana, col benessere dei ricchi e l’esplosione della disoccupazione: ecco che le metropoli diventano luoghi di incubo, tane di pazzi, sfondi per thriller e horror. Di tutto ciò Berardini disegna un quadro esauriente, spesso partendo dalla descrizione di una singola sequenza e utilizzando la prassi del confronto tra un film e l’altro.

Nell’analisi sono memorabili alcuni passaggi, come quello dedicato allo splendido Cruising di William Friedkin con la stupida accusa di omofobia che ancora si porta dietro: «Il problema è confondere l’oggetto del film con l’opinione del regista (….). Cruising, in realtà, non è una pellicola di reazione, ma sulla reazione. È un film che testimonia la paranoia dei nascenti anni Ottanta per il diverso, un rigurgito omofobo e razzista che attraversa sottotraccia la prima metà del decennio». L’ultimo capitolo è pane per i denti dei nocturniani: intitolato Maniac(s), si concentra sugli assassini e giustizieri nelle città della paura, cioé i vari psicopatici e serial killer che infestano i tardi Ottanta. A partire proprio da William Lustig, che con Maniac girò lo slasher seminale per tutti i successivi (con «la città come terreno di caccia») e arrivando a Dente di Fata, l’assassino che domina Manhunter di Michael Mann trascinando il detective sullo stesso terreno in un’inquietante sovrimpressione tra cacciatore e preda. Insomma bisogna seguire il percorso di Strade di fuoco: ognuno avrà il suo preferito, naturalmente, e tornerà la voglia di rivedere il titolo a cui si è più affezionati. Come sempre accade con un libro di cinema che si rispetti.