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I codici neri di Alfred Hitchcock

Autore:
Antonello Altamura
Editore:
Robin

Il nostro giudizio

Come le grandi piante sempreverdi, Hitchcock continua ad espandere la chioma ben oltre la sua scomparsa avvenuta ormai da quattro decenni, e non c’è anno che qualcuno non pubblichi un nuovo studio sul grande regista inglese naturalizzato americano. Le biblioteche rigurgitano di volumi scritti sul Mago del thriller e non è un’esagerazione affermare che il grande Alfred incarna l’ideale più invidiato di immortalità cinematografica. Nato in un sobborgo di Londra nell’ultimo anno dell’800, dopo 122 anni non c’è un solo suo film che mostri le rughe del tempo. Intere falangi di opliti devoti non hanno mai smesso di frugare, compulsare, anatomizzare la sua opera per carpirne spiccioli di eredità e ogni più recondito segreto; i suoi film sono stati analizzati fotogramma per fotogramma, non c’è regista di gialli al mondo, noto o ignoto, che non si sia nutrito di ogni sua sequenza e non abbia tentato di riprodurla. Nondimeno continuano ad uscire libri su di lui, Ora è la volta di Antonello Altamura che pubblica con Robin Edizioni I codici neri di Alfred Hitchcock ripercorrendo a luce radente gli anfratti inquietanti del Maestro che l’hanno più turbato, o che hanno turbato i suoi pazienti, essendo l’autore anche psicologo e psicoterapeuta. In questo volume, di devozione prima ancora che di approfondimento critico, incontriamo il caro Hitch come si ritrova un vecchio amico, di cui non abbiamo alcun bisogno di spulciare la biografia alla ricerca di chissà quali gossip e scandalose rivelazioni. Altamura rievoca piuttosto le angosce delle trame – voyeurismo, perversioni, frigidità, feticismo – ponendosi in una prospettiva inconsueta, a metà strada tra il manuale cinematografico e l’almanacco degli orrori; svelandone in tal modo il perfetto meccanismo narrativo, e svuotandole di ogni ulteriore terrorizzante minaccia. Del resto le vicende da brivido del regista britannico nascevano già ben mascherate dietro un glamour avvolgente e di rara squisitezza: femmine e uomini belli, elegantissimi, circondati dal lusso esclusivo delle loro dimore, e dotati di quella esteriore raffinatezza che mai lascerebbe sospettare l’acre fumo di Satana.  Benché il regista ne esali il veleno fin dalle prime scene, essendo questa ancora e sempre la sua impronta, il marchio del suo genio. Le storie con i detective, ci informa, non lo divertono: «Sono i classici gialli in cui si deve trovare l’assassino, ed è un genere di storie che nel cinema non ho mai trovato interessanti, perché sono quasi come i cruciverba: bisogna aspettare fino all’ultima pagina per scoprire chi è il colpevole, no?, e non c’è nessuna emozione. Invece nelle storie di suspense uno dà al pubblico le informazioni in anticipo. Li rende come delle divinità in grado di vedere sopra ogni cosa. E allora sì che si agitano.

Ma in un film giallo non c’è nessuna emozione». Così confida il celebre cineasta a Andy Wharol, che nel 1974 lo intervista per Interview magazine in una stanza dell’Hotel Plaza. Una chiacchierata amichevole, a ruota libera, in attesa di recarsi a pranzo; con qualche fotografo intorno e, al di là dei vetri, l’impareggiabile scenario del Central Park. Per trasferire al lettore il sapore della conversazione improvvisata, occasionale, il testo è offerto esattamente nella sbobinatura originaria; scorrendolo sembra quasi di udire i rumori di sottofondo, il tintinnio dei bicchieri, i passi, i colpi di tosse. L’intervista arriva dopo l’ultimo capitolo del libro, quasi in appendice, corredato da una polaroid sovresposta di Alfred e Andy che si sono lasciati riprendere l’uno accanto all’altro, con le tempie che si sfiorano. Per affetto, ammirazione, complicità? Lo scatto ci ricorda nello stile i tanti amati selfie dei nostri telefonini. Nel dialogo gustiamo il sapore del back stage offerto con sbrigativa ruvidezza. Kim Novak, la splendida, ahi quanto desiderata Kim Novak, si rifiutava di indossare il tailleur previsto dal copione per la parte. Chiosa il regista: «Di solito in questi casi dicevo: “Senta, faccia un po’ come le pare; tanto poi c’è sempre il pavimento della sala di montaggio”. Questo li impressiona sempre e così si risolve tutto.»  Traduzione per chi non pratica il linguaggio del cinema: la pellicola tagliata nel montaggio finisce a terra e viene buttata via. Fine della festa. La protagonista di La donna che visse due volte (Vertigo) apparteneva a quel genere di creature femminili adorate da Hitchcock: bionde, di pelle chiara e luminosa, dal viso dolcissimo e curve docili, capaci di lasciare chiunque senza fiato. Stiamo parlando di Carol Lombard, Vera Miles, Eve Marie Saint, Grace Kelly, Janet Leigh, Tippi Hedren, le algide bionde all’aspetto inavvicinabili. Ma l’allegro stregone spazza via ogni malinteso: «Ecco, il principio è che all’apparenza sono molto fredde, ma nel momento in cui entrano in azione scatenano un vero inferno, ha presente? Secondo me le donne inglesi sono le peggiori. Sembrano tutte delle maestrine, ma dentro un taxi sono capaci di farti a pezzi… Le bionde alla Marylin Monroe, comunque, non mi hanno mai entusiasmato: dico sempre che portano il sesso attorno al collo, come un gioiello». Una stoccatina al cuore di Wharol che nella sua Factory aveva moltiplicato Marylin replicandola in una sequenza interminabile di primi piani ipercromatici. Un’intramontabile icona Pop. Si dice che Hitch si innamorasse perdutamente delle sue bionde platinate. Per Grace Kelly aveva spasimato durante l’intera lavorazione di La finestra sul cortile.

I bene informati giuravano che la futura principessa di Monaco, ragazza di sani appetiti, nel corso delle lunghe settimane di riprese l’avesse data a tutti meno che a lui, facendolo ammattire. Con Tippi Hedren era andata meglio, così si vocifera. Non sappiamo (anzi lo sappiamo) cosa ne pensasse la moglie, la onnipresente, protettiva, volitiva, estrosa, indispensabile Alma Reville, già montatrice del mitico David Wark Griffith, prima di accettare il medesimo ruolo con Alfred; di cui divenne sposa, cuoca, collaboratrice, produttrice e anche sceneggiatrice, dal 1926 fino alla morte del Maestro del brivido avvenuta nel 1980. Un sodalizio sentimentale e professionale ineguagliabile. “Alma era piccola, – scrive Altamura – alta circa 1,50 cm, con un’aria a tratti bambinesca; aveva capelli rossi e la pelle lentigginosa ed era forte come l’acciaio”. Gli interpreti maschili non erano da meno in quanto a bellezza: invariabilmente attraenti, compiti, di fascino strepitoso e molto spesso velatamente ambigui: Cary Grant, Joseph Cotten, Montgomery Clift, Farley Granger, Antony Perkins, James Stewart, Laurence Oliver, Ray Milland, Gregory Peck. Altamura ci narra le donne e i cavalier, le trame dei film, ma soprattutto ci illustra gli efferati delitti riciclati dalla cronaca, i clamorosi casi giudiziari. i referti clinici che stanno alla base dei personaggi e che riguardano non solo loro, ma anche tutti noi spettatori. Forse è per questo che non ci stancheremo mai di guardare e riguardare i film del Genio della suspence, di saziarcene, come bambini che invocano prima di addormentarsi le favole truci di Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, La bella addormentata. “Mentre i grandi registi suoi contemporanei volevano parlare della società. Hitchcock voleva parlare dei labirinti interiori dell’uomo”. Ci avverte l’autore, il quale inanella capitoli capaci di avvincere già dal titolo: Il maschile tra défaillance e psicopatici; Il mostro e il divo; Definizioni e tipi di serial killer; Il pericolo arriva dall’ignoto; Quando l’omicidio seriale diventa grande spettacolo di massa: Psyco. Uomini e donne non sono altro che meravigliosi involucri di subdole deviazioni sessuali, spaventose nevrosi che creano i peggiori mostri. Riappaio leggende terrificanti che portano il nome di Landru o Jack lo squartatore. Nell’intervista a Andy Wharol, Hitch liquida però sbrigativamente i serial killer: «In quel caso siamo di fronte a degli psicopatici, capisce? Dei veri e propri psicopatici. Molto spesso hanno problemi di impotenza. Come il protagonista di Frenzy: lui era impotente fino a quando non uccideva. E si eccitava proprio in quel modo».