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Devil’s eyes: Rob Zombie tra il palco e lo schermo

Autore:
Edoardo Trevisani
Editore:
Shatter Edizioni

Il nostro giudizio

Chiamare White Zombie la propria band industrial metal in omaggio al primo film di morti viventi (in Italia L’isola degli zombies) è già una dichiarazione di appartenenza oltreché un manifesto programmatico. Allo snobismo neanche tanto celato che ha portato a scegliere il titolo di Victor Halperin ad altri ben più noti, Robert Bartleh Cummings ha affiancato una galassia ispirativa realmente lo-fi che da Al Adamson arriva a Gerry Anderson e Fod Beebe, riequilibrando lo sbilenco stato delle cose. Anche per questo motivo, l’universo di Rob Zombie (a ben vedere più un alter-ego che uno pseudonimo per Mr. Cummings) è shock rock non solo nel suo output musicale, corteggiato da critica e idolatrato da una nutrita fanbase, ma anche in quello cinematografico. Devil’s Eyes: Rob Zombie tra il palco e lo schermo di Edoardo Trevisani, edito da Shatter Edizioni, tenta l’analisi parallela dei due percorsi analizzando i punti di contatto, sottolineando la ricerca di una dimensione visiva nell’esibizione musicale e l’impeto rock nella proposizione di un universo cinematografico che ha compattezza da vendere.

La musica rock è la prima occasione per Rob Zombie per dare sfogo alla sua vena creativa in un periodo e in un contesto per niente semplice, come quello della scena underground degli anni Ottanta a New York. Sin dai primissimi passi nei White Zombie, nelle messe in scene e nell’aspetto visuale globale, possiamo scorgere tutta una serie di riferimenti culturali, di immagini e situazioni che più avanti ritroveremo, ancora più chiari, nel suo cinema. Dopo un’introduzione a tutto campo sul primo aspetto, Edoardo Trevisani analizza il corpo d’opera di Zombie – compreso il seminale fake-trailer Werewolf Women of the SS girato per Grindhouse – distillando i segni di una poetica che certamente trova compiutezza nel capolavoro Le streghe di Salem, ma appare già ampiamente delineata nei videoclip che il rocker ha sempre voluto girare in prima persona. Il rock come palestra per il cinema, in un continuo scambio di ossessioni e ritorni dove a convivere sono cattivo gusto e accensioni orrorifiche, devianze sessuali, provocazione fine a se stessa e mostri della cultura pop americana, citazioni dai capisaldi italiani, su tutti Lucio Fulci, e uno sguardo politico sulla realtà che lo accomuna al Tobe Hooper più selvaggio.

Schietto, ma mai ingenuo, il cinema di Zombie nasce e si sviluppa sotto il segno di una consapevolezza che, dietro all’aspetto ironico e beffardo, nasconde una profondità non comune. Nel suo agile saggio, ugualmente ad uso di fan e neofiti, Trevisani indica chiaramente che gli occhi di Zombie sono fissi sul volto vero di una violenza concreta e brutale che ha segnato con il sangue la storia americana: sia sufficiente pensare al tema degli omicidi a sfondo satanico della Manson Family o ai processi alle streghe di Salem dei due titoli più luminosi dell’intera filmografia. Le analisi proposte dal nuovo volume Shatter, di film in film, dimostrano quanto i riferimenti esterni servano al regista come veri e propri arnesi, strumenti pratici che sostanziano la sintassi. In ciò la violenza mutuata da Peckinpah, le allusioni sessuali di un’icona senza tempo come il Nosferatu di Murnau, la brutalità di un Herschell Gordon Lewis sono i filtri attraverso i quali guardare il paesaggio esistenziale che si vuole descrivere, ben lungi dall’assillo citazionista.