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Del Paganini e dei capricci

Autore:
Stefano Loparco
Editore:
Il foglio letterario

Il nostro giudizio

Già il fatto che qualcuno scelga di titolare un libro con il dimenticato complemento di argomento (in latino de + ablativo), ce lo rende appetibile a prescindere. Anche a non sapere di che cosa esattamente parli. E anche se nel caso del presente volume, la lettura non disattende poi le aspettative. Non si sapeva esattamente che cosa sarebbe stato, Del Paganini e dei capricci – perlomeno, chi scrive non lo aveva ben afferrato – se un libro sulla vita di Klaus Günter Karl Nakszynski, meglio noto come Klaus Kinski, o qualcosa di più definito e specifico sul personaggio e sulla sua opera maestra. Il libro di Stefano Loparco apparso per l’editore Il Foglio finisce per essere l’una cosa e l’altra. Perché, se il suo obiettivo sensibile è la ricostruzione di tutto l’arco di eventi, cose e persone che portarono alla realizzazione del Paganini di Kinski, il percorso non può fare a meno di investire nella ricerca l’intera esistenza dell’attore. Kinski fu il risultato di una serie di misteriosi addendi che si sono mescolati e sommati nell’universo per darne questa somma. E la cosa davvero bizzarra è che ogni volta che si legge una sua vita, da quelle scritte da lui stesso a quelle stilate dai suoi biografi, si ha l’impressione che si parli di una persona sempre diversa. Il Kinski che ricorda di quando ficcava un dito nel culo a Maria Rohm mentre ballava bocca a bocca con Margareth Lee o il Kinski che ondeggia divertito attaccato ai cavi d’acciaio del Golden Gate, in un giorno di sole o le centinaia di altri Kinski che si manifestavano nel mondo fenomenico. Mi sono fatto il convincimento che ciò dipenda dal numero infinito di cose che fece Kinski nella sua vita, dal numero infinito di vite che visse, dall’infinito numero di personaggi che fu, tutti uguali eppure tutti differenti. Kinski era super-umano e mi spingerei persino a pensarlo come un avatar. Per questo, la sua esistenza è così proteiforme e inafferrabile. Sfugge di mano e inganna.

Deve essere scoraggiante affrontare Kinski, anche se si è deciso di prenderlo dal lato da cui lo ha preso Loparco, finalizzando il racconto a ciò che ebbe inizio materialmente il 7 settembre del 1987, quando venne dato – come si diceva una volta – il primo colpo di manovella al Paganini, ma che idealmente affondava le radici nella più remota antichità kinskiana. Verrebbe da dire addirittura a prima della sua nascita, in una vertigine di metempiscosi che potrebbe forse giustificare l’ossessione che l’attore nutriva per il genio con il violino, l’uomo del quale si diceva che avesse venduto la propria anima al diavolo per la maestria nell’arte. 46 giorni durarono le riprese del film dei film per Kinski: un mese e mezzo, sei settimane e un tempo penitenziale a seguire passato al montaggio, per compiere ciò che Kinski riteneva un miracolo e che quasi chiunque altro stimò un obbrobrio. Ma attenzione, non bisogna lasciarsi fregare di fronte a un film come Paganini dalla stretta finale in cui si conclude che sia, banalmente, bello o brutto: Loparco lo sa bene e il pregio del suo volume è, tra gli altri, quello di far capire quali forze si muovessero dentro, dietro, prima e dopo il film. E non importa che nessuno le abbia riconosciute. Importa che ci siano. Scendendo più a valle, Del Paganini e dei capricci è zeppo di testimonianze preziose e di cavillosi riferimenti documentali, che servono a ricostruire la fenomenologia di Kinski e della sua opera fissando date e dati certi, connessioni, incontri, rapporti. Augusto Caminito che produsse il film è teste prezioso e privilegiato, ovviamente, ma anche Debora Caprioglio porta su Kinski la luce di una visione equanime e moderata che mi pare serva quando ci si trova di fronte a materia tanto  ribollente e incandescente.

Nel processo formativo del Paganini e tra i capricci di Kinski, rientra anche tutto ciò che esauriva il resto della collaborazione tra Caminito e l’attore, ovvero Nosferatu a Venezia e Grandi cacciatori, che Loparco ha finalmente l’occasione di fissare con ricostruzioni precise e sfrondandoli delle leggende fiorite intorno ad essi. Grandi cacciatori, in particolare, sarebbe meritevole non mi spingo a dire di riscoperta (che in realtà sarebbe poi una scoperta, dal momento che sulla faccia della Terra lo abbiamo visto forse in 100 anime, nonostante Harvey Keitel nel cast) ma di considerazione, se mai capiterà che Rti lo riesumi dagli archivi in cui lo ha sepolto. Due parole, infine, sull’ottima scelta di corredare il volume con la sceneggiatura del Paganini (a cura di Domenico Monetti) e di intervistare, oltre a tutti gli altri, anche Sergio Graziani che fu tra le più belle voci italiane prestate a Kinski.