L’esorcista

Il testo di William Peter Blatty in un magnifico adattamento teatrale
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Non ho alcuna idea di come si scriva la recensione di uno spettacolo teatrale. Immagino non sia molto diverso dal recensire un film. O forse sì. Comunque… L’esorcista portato in scena in questi giorni al Teatro Nuovo di Milano è, usando i parametri della settima arte, un mezzo capolavoro. Anche sottraendo quel “mezzo”, solo di cautela, di timidezza. Perché ha l’aria di qualcosa di perfetto, che non si riuscirebbe, cioè, a immaginare meglio di quanto si mostri. L’esorcista, prima libro di William Peter Blatty, che film di William Friedkin, si presenta come una parete impervia da scalare. Il romanzo va inscritto tra i fondamentali, per chi si muove nei nostri mondi, nel nostro mondo. “Nostro” non ha bisogno che lo si specifichi, se lo dice una delle menti creanti di Nocturno, senza falsa modestia. La suggestione del testo riverbera nelle parole di un produttore italiano, che ne fece una variatio fantastica in un film che si intitolava Chi sei?, Ovidio Assonitis, il quale ricorda che lo lesse in aereo tutto d’un fiato, di notte, durante un volo in mezzo ai temporali da Singapore a Roma. Lassù, nel cielo, il racconto dove il Diavolo la faceva da padrone, fece vibrare corde arcane. E corde arcane ha fatto vibrare, qui, sulla terra, in chi ha deciso di farne un adattamento teatrale, sfidando in qualche modo il Signore delle Tenebre, portandolo come presenza assente o meglio assenza presente, sulle tavole di un palcoscenico. Il film di Friedkin sintetizzava lo spaventoso e il meraviglioso, la legge metafisica e le magie fisiche. Il teatro fa esattamente lo stesso e, se possibile, va a scavare in maniera ancora più profonda nell’abisso che ha improvvisamente inghiottito la dodicenne Regan.

John Pielmeier è l’autore dello stage play ricavato dall’Esorcista di Blatty. La regia italiana è di Alberto Ferrari ed è una regia accorta, insinuante, che valorizza la progressione drammatica della vicenda della dodicenne a daemone obsessa, figlia di un’attrice e vacante della figura paterna. L’irrazionale si insinua nel razionale, ne fissura la compagine, fino a far crollare lo status quo. C’è anche Padre Karras, il prete che si occupa di chi sta perdendo la fede e lui stesso frana sul terreno del dubbio, dopo la morte dell’anziana madre. La medicina interviene e non può nulla, alza la bandiera della resa e consiglia il ricorso, come shock psicologico, alla pratica dell’esorcismo, il rito di liberazione dal Diavolo che la Chiesa cattolica nasconde “come un parente scomodo”. E, infine, il faccia a faccia tra la satanica essenza che ha invaso l’involucro di carne e il gladiatore cristico incarnato dal vecchio padre Merrin, fino all’epilogo. Di Blatty, la riduzione teatrale mantiene molti dettagli su cui il cinema aveva glissato, per esempio la menzione della profanazione della Chiesa con lo sterco sull’altare, il pene posticcio applicato a un’immagine sacra e la descrizione, in perfetto latino, del rapporto lesbico tra la Vergine e la Maddalena. Piccoli dettagli: ma sta scritto che è nei dettagli che, appunto, il Diavolo si va a nascondere.

Le soluzioni sceniche sono stupefacenti: la casa teatro dei sovrannaturali eventi è strutturata come un puzzle escheriano, con i vari ambienti collegati attraverso geometrie allo stesso tempo coerenti e impossibili. Una complessità architettonica che pare riflettere il precipitare del logico nell’illogico. Cuore del tutto, la stanza di Regan con una finestra che affaccia sull’esterno invisibile, metaforicamente sull’ignoto. Fulmini, luci bluastre e fumo sulfureo si fanno strada da lì verso la platea: ci coinvolgono fisicamente, ci invadono. Teniamo per ultima la citazione degli interpreti, che di tutto sono il principio. Regan è Claudia Campolongo, splendidamente metamorfica, anche nella voce che si presta a dare espressione, fuori scena, alle parole di Satana. Viola Graziosi è sua madre, Chris, una donna emancipata, brillante, sboccata, con un grande segreto che l’onniveggenza della figlia-demone porterà alla luce. Karras, il prete-pugile, è affidato ai mezzi assai convincenti di Andrea Carli, mentre Jerry Mastrodomenico è il regista, disincantato, cinico e ubriacone Burke Dennings che finisce con il collo rotto volando giù da una scala. E non per colpa dell’alcool. L’ultimo a portare il suo piede sul palcoscenico è un enorme Gianni Garko, nella parte del vecchio sacerdote combattente Lankaster Merrin, già trionfante sul male che si annida dentro Regan, anche se questa volta sarà diverso… Garko giganteggia e sigilla, in un tripudio di effetti speciali che fanno invidia al cinema, questo L’esorcista. Da sperimentare assolutamente, al pari del romanzo e del film.