Les revenants: i morti alla porta

Un’apocalisse che comincia in un paesino tra le montagne francesi, dove i trapassati si presentano ai familiari come se niente fosse successo. Ma qualcosa è successo...
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L’elaborazione del lutto, di solito, è qualcosa che riguarda i vivi. C’è chi ci riesce (la maggior parte) e c’è chi no, ma in sostanza della solitudine dei morti non importa a nessuno: sono morti, appunto. In Les revenants, serie francese prodotta da Canal+ nel 2012, trasmessa pure negli States con l’onore dei sottotitoli, i morti, all’improvviso, non sono più tali. Ritornano, come da titolo, si ripresentano alla porta di casa dopo anni, come se il tempo non fosse passato, dimentichi di essere, a un certo punto, trapassati. Il luogo è una cittadina delle Alpi francesi (le riprese sono avvenute ad Annecy), un grumo di case sprofondato tra le montagne, accanto a una diga e a un lago artificiale che, qualche decennio fa, ha inghiottito tra le acque un intero villaggio. La prima a tornare a casa è Camille, una quindicenne dalla folta chioma fulva, finita quattro anni prima in fondo a una scarpata insieme a tutto il pullman della sua classe in gita. A lei è dedicato il primo episodio (in totale la stagione 1 ne conta otto) e il suo caso esemplifica immediatamente il tono e l’intreccio di argomenti messi in campo da Les revenants: attorno a Camille, ci sono le macerie di una famiglia divelta dal lutto (i genitori si sono separati, la madre ha una relazione con il coordinatore di un gruppo di sostegno per i parenti delle vittime, la sorella attraversa un’adolescenza scapestrata); e poi, Camille ha una sorella gemella, che gemella non è più: il primo incontro tra le due, lo specchio fratturato di due corpi non più identici (Léna, naturalmente, è cresciuta, mentre Camille conserva lo stesso aspetto di quattro anni prima) si scioglie in grida di terrore ed è un momento sinceramente orrorifico e maledettamente angosciante. Simon, invece, è scomparso dieci anni fa, il giorno in cui avrebbe dovuto sposarsi. Dicono sia stato un suicidio, ma lui non se ne rammenta. Da dietro la porta a vetri, osserva la fidanzata Adèle e la figlia Chloé, ed è determinato a ricominciare dal punto in cui tutto si è interrotto.

C’è anche un bambino, lo chiamano “Victor”, non parla, ma segue dappertutto Julie, un’infermiera che anni fa è sopravvissuta all’attacco di un serial killer, e che lentamente si affeziona al ragazzino come a un figlio. Ecco, il serial killer: il suo nome è Serge, viveva sulle montagne insieme al fratello Toni, che però a un certo punto l’ha ucciso per evitare che colpisse ancora. Ora, anche Serge è tornato e ha ripreso le vecchie abitudini: naturalmente, essendo già morto, non può più essere ammazzato. Nelle profondità della cattolica provincia francese, quando i morti si ripresentano all’uscio, prima di gridare all’apocalisse zombi, si parla con nonchalance di resurrezione e ci si presenta dal parroco a domandare spiegazioni. E il primo aspetto straniante, per uno spettatore italiano, è accorgersi di quanto la cittadina in cui è ambientato Les revenants assomigli a un qualsiasi paese della campagna piemontese o dei monti trentini. C’è una sensazione di familiarità che fa d’attrito con l’eccezionalità imperscrutabile degli eventi e che avvince, fin dai primi minuti. Da un lato, non si può dire che i ritornanti della serie siamo zombi: non c’è modo di distinguerli dai vivi (o meglio: da quelli che non sono ancora morti); sono affamatissimi, è vero, ma non di carne umana, e l’unico cannibale è Serge, che mangiava pezzi delle sue vittime fin da prima che Toni gli desse una badilata in testa; non dormono mai e non possono più essere eliminati, e questo è quanto. Le cicatrici, la carne in decomposizione, le ferite sanguinanti sono soprattutto sui vivi: Julie accarezza il ventre martoriato dalle coltellate di Serge, riaccendendo il dolore al tocco dei polpastrelli; Léna scopre sulla schiena un taglio immotivato, che peggiora un giorno dopo l’altro. I ritornanti fanno paura, agli altri ma anche a se stessi: sono la prova di un limite spezzato, la mancanza di un orizzonte definitivo.

Qual è, allora, la fine, se non più la morte? Qual è la ragione di quest’anomalia? Perché qualcuno ritorna e qualcun altro invece no? Mentre le acque del lago artificiale misteriosamente si abbassano, lasciando emergere gli scheletri e i fantasmi di un villaggio-cimitero, mentre l’elettricità salta a intermittenza soffocando il paese nel buio, ogni personaggio rimesta nelle cicatrici aperte della colpa e del lutto, forzando morti e vivi a fronteggiare i conti del passato. E del presente: dopo i primi magnifici episodi costruiti attorno ai personaggi principali, l’inquietudine si allarga, insieme al paesaggio, allagando la città in un terrore collettivo. Se per qualcuno la spiegazione è innecessaria, l’equilibrio frantumato tra vita e morte è questione dirompente che non lascia scampo a nessuno. La certezza di una seconda stagione di Les revenants permette agli autori (tra i quali c’è pure l’Emmanuel Carrère di Limonov) di seminare indizi e di non chiudere, davvero, alcun cerchio, abbandonandoci in un finale sospeso. Qualcuno ha storto il naso (ed è innegabile che, rispetto alle prime perfette puntate, gli ultimi episodi risultino più frastagliati e disomogenei), ma il disegno di un’apocalisse incombente eppure placida quanto le acque di un lago è efficacemente spiazzante. Tra le interpretazioni brillano soprattutto quelle femminili, dalle rodate Anne Consigny, Clotilde Hesme e Céline Sallette alle esordienti Jenna Thiam e Yara Pilartz. E poi c’è la colonna sonora, il post rock scozzese dei Mogwai: apertamente ispirata al Badalamenti di Twin Peaks, apparecchia una fine del mondo sommessa su un tappeto di chitarre distorte e di note di carillon, e accende un’ipnosi da cui è difficile svegliarsi.