Leonardo Di Caprio nel ventre caldo del cavallo

La storia antica di un supplizio salvifico….
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Questi i fatti sui quali riflettere. Nel 1971 il regista spagnolo Fernando Arrabal, all’interno del suo film Viva la muerte inserisce una surreale e scioccante sequenza – una delle molte – ambientata in un mattatoio, che ci fa assistere alla macellazione dal vero di un enorme manzo: sgozzato, decapitato, dissanguato e appeso per le zampe posteriori. Dopodiché, compare un individuo cucito all’interno della carcassa, con fuori solo la testa. Una donna, Nuria Espert, che si è avvoltolata per terra tra i liquami, le deiezioni e il sangue della bestia uccisa, si avvicina a quel punto alla testa dell’uomo baciandolo: un lungo, profondo e appassionato bacio. Una banda musicale, lì presente, intanto suona. Nel 1974, il regista Gianfranco Mingozzi, ripropone qualcosa di molto simile nel suo film Flavia la monaca musulmana: qui è una donna, Franca Grey, che, contestualmente a una serie di scene oniriche di cui sono protagoniste le converse di un monastero cinquecentesco, predate, abusate e drogate da soldati saraceni di passaggio, si sistema, completamente nuda, all’interna della carcassa di un bovino appeso per le zampe posteriori. La scena prosegue con due uomini, anch’essi nudi, che dischiudono i lembi di carne dell’animale perchè la ragazza ne esca come se si trattasse di una sorta di osceno parto. Un a variazione sul medesimo tema è anche quella che Alberto Cavallone inserì nel suo film Maldoror (1975), dove un’attrice americana, rinchiusa nella carcassa di un bovino – la leggenda narra che la poveretta restasse ubriacata dall’odore del sangue –, balzava fuori nel momento in cui il macellaio squartava la bestia, ingaggiando quindi una lotta con un’altra donna e sgozzandola a morsi.

Sia Mingozzi sia Cavallone dipendevano assai plausibilmente dal modello di Arrabal. che a sua volta non inventa niente, perché il motivo dell’inclusione di un essere umano nella pelle o nella carcassa di un animale morto è molto antico e attinge in origine alla sfera delle torture più tremende. Secondo alcune fonti, fu questo il supplizio che toccò al poco conosciuto San Chrysanthus (sposo della vergine Daria), martirizzato cucendone il corpo all’interno della pelle di una vacca appena uccisa ed esponendo il triste involucro alla vampa del sole ardente. Una variante del tormento, prevedeva che il condannato fosse gettato, rinchiuso nella carcassa di un asino o di un cammello, alle fauci delle belve. Gli imperatori del basso impero pare praticassero volentieri questo tipo di sevizia mortale. Possediamo anche precise e dettagliate descrizioni della tortura, grazie alle opere letterarie di Luciano di Samosata e di Apuleio, che nelle Metamorfosi illustra come preparare la carcassa dell’animale, come inserirvi la vittima e le conseguenze tremende della pratica: «Uccideremo l’asino, lo sventreremo, leveremo tutte le interiora e metteremo dentro questa bella ragazza, in modo da lasciar fuori solo la sua testa, perché non abbia a soffocare; ma il resto del suo corpo sarà completamente rinchiuso. Quando avremo cucito ben bene il tutto, lo metteremo fuori, in pasto agli avvoltoi. Riflettete, amici miei, sull’orrore di una simile pena: innanzitutto, ritrovarsi nel cadavere di un asino; poi, venire cotto, all’interno stesso della bestia, dall’ardore del sole, nel cuore dell’estate; patire una fame orribile, senza potersi dare la morte; per non parlare di ciò che la vittima soffrirà a causa dell’infezione di questa carogna, né dei vermi che la divoreranno. Infine gli avvoltoi, arrivando al corpo della ragazza attraverso l’ano dell’animale, la mangeranno insieme alla carcassa, mentre lei sarà, forse, ancora viva». Si può essere ragionevolmente certi che Arrabal e Cavallone conoscessero il Movimento degli Azionisti Viennesi e le loro performances estreme portate in scena utilizzando spesso e volentieri carogne, carne e sangue animali.

Ma perché riperticare queste antiche forme di crudeltà insieme alle stravaganti incarnazioni cinematografiche appena dette? Chi ha visto The Revenant in questi giorni lo capisce immediatamente: nel film di Alejandro González Iñárritu, infatti, Leonardo Di Caprio, a un certo punto per sottrarsi alla morsa esiziale del gelo, non trova altra soluzione che quella di denudarsi e di rinchiudersi nel ventre del suo cavallo, morto dopo essere precipitato da un dirupo, come nell’abbraccio di una calda, sebbene fetida, coperta. Qui, quindi, la pratica, che non saprei onestamente dire se fosse già nel romanzo di Michael Punke che ha ispirato il film – nell’altro adattamento di Punke, quello di Richard Serafian degli anni Settanta, Uomo bianco va col tuo Dio, non c’era niente del genere – o se sia originale della sceneggiatura di Iñárritu e di Mark L. Smith, ha un valore salvifico: è un atto che porta la vita e non lamorte. Ma qui gli amici cinefili più esperti di cose mainstream, mi ricordano che una situazione del genere era già stata sperimentata in L’impero colpisce ancora quando Hans Solo salvava la pelle a Luke da un sicuro assideramento infilandolo nella carcassa di una lucertola delle nevi o tantaun: «Quando ebbe estratto completamente le interiora dell’animale – leggiamo nella novelization di Donald F. Glut – Ian spinse l’amico dentro la calda pelle lanosa: “Questo puzzerà un po’, piccolo, ma ti eviterà di morire assiderato. Sono sicuro che il tantaun non esiterebbe, se le cose stessero al contrario”. Un’altra zaffata di fetore esalò dalla cavità sventrata del corpo del rettile. Per poco Ian non vomitò: “Forse è meglio che tu sia svenuto, amico”…».