La vera storia di Arrapaho

I retroscena del cultissimo di Ciro Ippolito
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Risollevare le proprie sorti e tornare a incassare qualche lira per il produttore partenopeo Ciro Ippolito, dopo due sceneggiate napoletane che non erano andate affatto bene al botteghino, non fu impresa facile. Coraggiosamente, il regista di Alien 2 sulla Terra decise di puntare sulla comicità demenziale e volgarotta del gruppo degli Squallor, allora abbastanza seguito dal pubblico, ma del tutto avulso dal mondo cinematografico. Ispirato dai contenuti dell’LP Arrapaho uscito l’anno precedente, pensò di farne una trasposizione cinematografica e, a casa della voce storica degli Squallor, Alfredo Cerruti, espose il progetto ai membri della band. «Avevo visto un film dei Monty Python, Il senso della vita – rammenta Ippolito. Mi era piaciuto molto, anche se non ha fatto una lira in Italia. Allora ho pensato: “Questo è un genere che in Italia, fatto all’italiana, potrebbe funzionare bene”. Poi c’erano gli Squallor, che vendevano migliaia di dischi ma non si vedevano in televisione, nessuno li conosceva, si conoscevano solo le voci, le canzoni. Da qui l’idea, perché avevano una grande comicità, potenziale, come gruppo. Mi piaceva il titolo Arrapaho, era bello perché si prestava proprio a quello che volevo io: c’erano i pellerossa che parlavano napoletano, era proprio servita su un piatto d’argento, devo dire, l’idea. E così sono riuscito a fare il film. Ho chiamato tutti quelli del gruppo, Cerruti, Pace, sono andato a Milano, perché loro abitavano a Milano, e abbiamo chiuso subito un accordo». Nel giugno del 1984, la troupe si stabilisce tra i campi della Centrale del Latte sulla Tiburtina a Roma e l’oasi naturalistica di Montegelato sulla Cassia, insieme a pochi attori professionisti, qualche tenda, cinque cavalli e un totem di forma fallica. «Lo abbiamo girato in 15 giorni. Molti pensano e hanno scritto che Arrapaho sia il film più brutto di tutti i tempi, la cosa più orrenda che sia mai stata fatta al cinema. Alcuni criticano la voce fuori campo che all’inizio dice cose sconclusionate, ma quelle sono dette apposta così, per far ridere, sono nate così. Cioè, la povertà del film è la chiave comica».

La trama di Arrapaho, sulla carta un western demenziale, ha come protagonista la bellissima greca del Drive In Tinì Cansino nei pochi panni di Scella Pezzata, la quale si trova contesa dall’Aristoteles di L’allenatore nel pallone, Urs Althaus, nei panni del protagonista che dà il titolo al film, e da Cavallo Pazzo, interpretato dal felliniano Armando Marra. Ovviamente la Cansino, che ci concede un nudo frontale da urlo proprio sotto la cascata di Montegelato, sceglierà l’aitante modello svizzero Althaus all’attempato e non proprio apollineo Marra. Nel frattempo, Capo di Bomba (interpretato dal figlio della padrona del ristorante degli studi della De Paolis) chiede al padre Palla Pesante (Daniele Pace), capo della tribù dei Cefaloni, le prime delucidazioni sessuali, gli indiani Froceyenne (sic!) – Linguamatic, Luna Caprese, Latte Macchiato e Cornetto Solitario – si sollazzano vicendevolmente, mentre Mazza Nera (il grande Nello Pazzafini, neanche accreditato) osserva pacato. Il film è tutto qui, volutamente scombinato, recitato malissimo, poverissimo ma allo stesso tempo molto divertente. Gli attori sbagliano, ripetono, scoppiano a ridere: tutto è lasciato fare dal regista e tutto viene inserito nel montaggio definitivo, non c’è troppa pellicola da sprecare. «Arrapaho – spiega Ippolito – non è che sia stato girato male, è girato male apposta per far ridere. Era quella l’idea comica. Forse è l’unico film comico senza comici. Volevo farlo senza il ricatto del comico, però volevo far ridere come in un film comico. Ci sono scene che sono montate tre volte di seguito, con la mia voce fuori campo, ma era proprio quella la gag. Magari la prima scena non ti fa ridere, ma se vedi quel ciak ripetuto tre volte di seguito, con Pace che va avanti e indietro, la gag era quella! Era usare la mandria di cavalli bradi che stavano lì quando non ne avevamo manco uno di scena… cioè, le gag del film sono quelle e quindi è il primo film italiano comico, forse, fatto senza il ricatto del comico. Infatti è un film che non invecchia!».

Alfredo Cerruti, voce narrante del film, non trattiene le risate mentre racconta la strampalata storia e soprattutto mentre nomina Scella Verde, la vedetta indiana Arrapaho intrepida “come un carabiniere” o mentre ci presenta le due ancelle: Cagna Rognosa e Filumena Marturano! La storia non porta proprio da nessuna parte, Ippolito ne è consapevole e, per arrivare a un minutaggio decente, ricorre a un tremendo e stucchevole finale appiccicato, che vede protagonista Ippolito stesso che dirige un’invisibile orchestra mentre scorrono i titoli di coda. Ma non solo: il regista-produttore chiama anche il duo dei Salici Piangenti formato da Renato Rutigliano e Benedetto Casillo per far loro interpretare due spettatori dell’Arena di Verona che chiacchierano durante la messa in scena dell’Aida di Verdi (idea usata in un disco proprio dagli Squallor) e poi infarcisce il film di finti spot pubblicitari con tanto di jingle, che in realtà proviene da una sequenza rubata dello Zampognaro innamorato). le cose sono volutamente senza senso, le gag stanno là, nell’usare la luce quando non c’era, nel vedere gli attori in controluce muoversi anche male, ma è tutto voluto. «Arrapaho ebbe un successo senza precedenti. Incassò subito. E dire che il film non lo voleva fare nessuno. In quel periodo io avevo un grosso potere commerciale, i miei film facevano un sacco di soldi, eppure, quando lo proponevo ai distributori, allo stesso Lombardo, non ci credevano. Lombardo mi disse: “Ma questa è una stronzata! Ma che, siete pazzi, a voler fare una cosa così, senza capo né coda?”. E io inutilmente gli ho risposto che questo film poteva funzionare, che ai ragazzi sarebbe piaciuto moltissimo. A me faceva ridere, perché il film lo pensavo e ridevo da solo. Mi ricordo che quando andavo a Milano, la notte, in piena notte, alle quattro, cinque del mattino, quando ne parlavamo a casa di Cerutti e ci venivano fuori le gag, svenivamo dalle risate. Che poi sono le stesse che si sono viste nel film. Anche durante la lavorazione, ci vennero delle idee e quindi fu una lavorazione totalmente libera. Le gag venivano e si facevano».

Geniali sono gli sketch ispirati ai personaggi delle canzoni degli Squallor quali Berta (qui interpretata dalla figlia di Ida Di Benedetto, Marta Bifano), e soprattutto l’edonista viziatissimo Pierpaolo (il morettiano Gigio Morra). Non male anche lo spot-saga del Tranvel Trophy, in cui uno sfigato imprenditore, ovvero il direttore di produzione Mario Olivieri diventato attore per la bisogna, per un motivo o per un altro non riesce mai a salire sul tram. Di facile individuazione le numerose sequenze, chiamiamole di repertorio, rubate a veri film western e immancabili alcuni divertenti cammei: c’è Max Turilli che fa il gay all’Aida, Totò Savio che implora la danza della pioggia, Bigazzi che passa in sella a una slitta in pieno campo indiano e Cesare Ragazzi che esce dal lago con un parrucchino in mano, anche se in realtà trattasi del suo sosia, Gregorio Gandolfo, poiché il Cesare vero aveva declinato l’invito. Montato il film alla meno peggio e ottenuto il visto censura agli inizi di agosto del 1984, Ippolito fa buona promozione parafrasando l’abusata frase di lancio del disco omonimo degli Squallor (“Ciao, vediti Arrapaho!”), ma arriva a distribuire la pellicola in due sole città a ridosso del Ferragosto. È l’inizio della deificazione: Arrapaho incasserà quasi 5 miliardi di lire a dispetto dei 150 milioni di costo. Un trionfo, un cult assoluto. «Io ero il produttore ma anche il distributore – dice Ippolito – visto che nessuno lo aveva voluto. Per fortuna. Avevo solo due copie e il film uscì in due sale soltanto, il 15 di agosto. Sono andato a Viareggio, dove c’era una sala, e un’altra era il giorno dopo a Ischia, che d’estate erano due zone di livello, ma avevo stampato solo quelle due copie. A Viareggio, appena sono arrivato, alle tre del pomeriggio, il cinema era già pieno, stracolmo. E così fino a notte inoltrata: hanno fatto uno spettacolo a mezzanotte addirittura. A Ischia è successa la stessa cosa e il giorno dopo mi ha chiamato l’allora direttore della Eci, il circuito cinematografico più importante italiano, che aveva tutte le sale in quel momento in Italia, che era Franco Tagliamonte, e mi ha offerto un’uscita strepitosa, come pochi film italiani di allora avevano avuto. A Roma c’erano sei cinema i primi giorni di settembre che programmavano il film. Poi dopo mi ha chiamato la Titanus, che non aveva voluto Arrapaho, e mi hanno dato una cifra incredibile per fare Uccelli d’Italia, che ho fatto di lì a poco e non ha avuto lo stesso successo di Arrapaho».