La tortura è un’arte

E cercando di portare a compimento tale arte, l’uomo entra in competizione con Dio. Nella vita come nel cinema.
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Non c’è latitudine, tempo o cultura in cui non abbia allignato la tortura. In tutte le epoche si è torturato, ma sono esistiti momenti nella storia dell’umanità in cui il ricorso agli strumenti per infliggere dolore fu cosa usuale e normalissima. Aristotele raccomandava ed egli stesso praticava la vivisezione sui corpi dei reprobi e dei condannati a morte (in corpore vili); e nel secolo dei lumi, dell’Enciclopedia e di Voltaire si arrivava ad applicare la tortura alle inezie, fosse anche solo – come ha scritto qualcuno – “per ottenere un sì o un no”. Che la tortura sia un’arte è fuori di dubbio; e come a tutte le arti, il genio degli uomini vi si è applicato con puntiglio e concentrazione, al fine di migliorarla, elaborarla e raffinarla. Ed è, la tortura, un’arte divina, nel senso che sono stati gli dei i primi a praticarla nel creato. Sia Apollo che scortica vivo il fauno Marsia nella mitologia greca o siano le atroci pene che il Dio cristiano minaccia e speriamo non mantenga nei confronti di chi non segue le sue leggi, gettandolo nell’abisso della Geenna, dove sono lacrime, sangue e stridore di denti. Ora, cercando di portare a compimento tale arte, l’uomo entra in gara con dio, in un’operazione demiurgica senza pari, poiché chi amministra la tortura ha potere di vita e di morte sulla vittima. Chi pensa che gli Hostel di Eli Roth siano scemate, ignora che in essi esiste la consapevolezza, formulata e non casuale, di questo principio. Nel secondo film, uno dei due amici che sono volati a Bratislava per aggiudicarsi il diritto di torturare e uccidere un essere umano, dice all’altro che ciò che stanno per compiere è qualcosa che li distinguerà per sempre dagli altri uomini e che gli altri uomini sapranno anche senza che nessuno glielo dica. Questo è molto più raffinato di quanto chi vede e scrive dei film tipo Hostel riesca generalmente a comprendere.

Il potere di vita e di morte: orbita tutto intorno a questo. Ormai è uno slogan affermare che Pier Paolo Pasolini avesse previsto e preconizzato ogni cosa, all’interno del film più crudele e feroce della storia del cinema, che è Salò o le 120 giornate di Sodoma. Che tutti continuano a citare e sul quale si sprecano fiumi di inchiostro, senza avere mai la sensazione che se ne sia afferrato il nocciolo duro, che probabilmente nemmeno Pasolini aveva ben chiaro. Del resto, basta rileggersi quanto il regista diceva e scriveva su questo film, all’epoca, per rendersi conto che egli non aveva un’idea precisissima di dove sarebbe andato a parare. Salò racconta, nemmeno troppo in fondo, la sostituzione dell’uomo a dio – che non esiste – e culmina, difatti, nell’atto con cui l’uomo più si avvicina all’idea demiurgica, che è la tortura. Perché Pasolini introduceva, ragionando su Salò, il tema della verticalità dantesca, tramite il quale egli strutturò il proprio racconto sul modello dell’Inferno: l’Antinferno, il girone delle manie, quello della merda e infine quello del sangue? Perché l’inferno, perché i gironi? Ancora una volta viene ribadito il tema centrale della tortura, del supplizio, della pena. All’inferno si soffre, si è torturati nei modi peggiori, si patiscono i tormenti più atroci e bizzarri. Salò non è solo un film pregno di morte, ma è anche un film pregno del potere della morte: il potere che ha in sé la morte come concetto (genetivus subiecti) e il potere che si ottiene dando la morte (genetivus obiecti). La reificazione delle vittime, la loro riduzione a merce rimanda al secondo dei significati e sposta l’attenzione potentemente dalla parte del demiurgo, cioè dei quattro signori, che sono poi quelli che interessano fondamentalmente Pasolini. E non le vittime, che egli descrive e delinea come idioti minus habentes – e non certo per la favoletta che, altrimenti, il pubblico avrebbe avuto troppa pietà per loro. Blue Movie di Alberto Cavallone fa la stessa identica cosa: Claudio Marani degrada, sevizia, “tortura”, costringendola a vivere in una gabbia, in mezzo al suo piscio e alla sua merda, Dirce Funari, della cui sorte, con quello sguardo bovino e remissivo, non può importare niente né al regista né a noi spettatori. È solo un oggetto di sperimentazione, di studio, al limite;  riveste il ruolo di strumento che Aristotele riconosceva agli animali. E quando in Hostel 2 vediamo Heather Matarazzo appesa a testa in giù, la “cessa” della compagnia, con quella pelle bianchiccia nemmeno troppo vagamente ributtante, pronta a essere macellata dalla lesbica che nel suo sangue cerca l’elisir di lunga vita, capiamo che il discorso, il perimetro filosofico – fatte naturalmente le debite proporzioni tra Pasolini ed Eli Roth – è sempre quello, sempre lo stesso. La scintilla demiurgica insita nel concetto di tortura e il potere che ne discende di vita e di morte sulla vittima.

La tortura è un atto cognitivo, tramite il quale l’uomo vaglia i limiti del proprio simile, e quindi anche di se stesso. I limiti emotivi, psicologici, soprattutto fisici. Tra le tenaglie del boia e le lancette autoptiche del notomista non passa poi questa grossa differenza. Aristotele era un perito settore di carne viva, pulsante di sangue e di dolore. Faciamus experimentum in corpore vili, può essere allo stesso tempo il motto di chi seziona e di chi tortura. Molti sistemi suppliziari paiono ideati, infatti, per scoprire che diavolo (Diavolo maiuscolo, per i cattolici) si cela all’interno del nostro corpo, fin nei più riposti meandri. Si pensi a quel che i musulmani fecero a San Thiemo martire, aprendogli il ventre, legando un capo dei suoi intestini a una carrucola e srotolandoli fino a saggiarne tutta la lunghezza. O si ponga mente a quante altre torture mirano a sondare il corpo umano, i misteri della sua apertura centrale (chasma), squartando, divellendo, rescindendo. In ciò che i francesi hanno battezzato “écartèlement”, la vittima viene legata per i quattro arti ad alberi piegati o ad animali tenuti a freno,  che una volta  liberi strappano e scompongono la meravigliosa macchina umana. Nel cinema di oggi si danno tracce di questa antica pulsione sadica verso la scoperta cruenta delle ultime frontiere del corpo: sono filmetti sciocchi come gli Anatomy  o come Touristas dove vediamo in azione medici che operano su pazienti vivi e coscienti. Il pubblico casuale dei blockbuster e più in generale il pubblico, come anche i critici, non capisce cosa sta dietro – involontariamente, è ovvio – a questa roba. Mentre gli psicopatici che rappresentano la gran parte dei fruitori abituali di film simili, concentrano la loro attenzione su quanto sia rosso o marrone il fegato rescisso o su quanti secondi duri la pratica chirugico-suppliziaria. Ovvio che tutto quello che abbiamo scritto potrà essere usato contro di noi…