La strega feticista

Eva Green vs Johnny Depp
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Eva Green, la strega feticista di Dark Shadows, mette in primo piano la propria avida femminilità e ridimensiona la mitologia. Come Barbara Steele nella Maschera del demonio

Angelique Bouchard, Eva Green, è la strega feticista più importante del cinema degli ultimi, diciamo, dieci anni, vent’anni, via. A pari merito con quelle di Coven ma con nessun’altra. Tim Burton la dispone sempre nell’inquadratura in maniera che ciò che Angelique indossa – la strega del 1972, perché nel passato la vediamo poco o niente e solo nelle scene iniziali – risalti più dell’attrice stessa. Quando fa la sua prima entrata a Collinwood Mansion, ha una gonna nera con spacco profondissimo, calze scure e stivali, che balzano in primo piano mentre Angelique si adagia mollemente su un canapé.  È ovvia, la funzione dell’immagine: deve provocare ed eccitare Barnabas alias Johnny Depp, che si è appena risvegliato dal suo forzato sonno centenario a cui lo ha costretto proprio Angelique, la strega, dopo averlo trasformato in un vampiro. E Barnabas non può evitare di frenare la propria libido di fronte a siffatta, ancorché demoniaca, femmina.

In un’altra occasione, Barnabas va nell’ufficio di Angelique per parlare e la trova con i piedi sul tavolo, velati di nylon chiaro, in bella vista, spavaldi, arroganti, usati quasi come un’arma. In mezzo, c’era nel frattempo stata la scena attorno a cui il film gira come su un cardine, l’amplesso aereo e scatenato tra la Green e Johnny Depp sulle note di You’re the First di Barry White, una sequenza che davvero fa da meraviglioso contrappeso alle centinaia di migliaia di cretinate che si è costretti a vedere facendo questo lavoro. E non è solo per la rappresentazione inedita di come facciano sesso tra loro due mostri – perché in genere il sesso negli horror è interrazziale, tra creature paranormali e umani –, ma per quel lessico lì, che non ha niente a che vedere con il cinema attuale (sebbene i due scopino sui muri e sul soffitto e devastino nell’impeto la stanza anche grazie alla CGI) e che richiama le grandi rapsodie immagine-musica che si vedevano una volta. Non stiamo a periodizzare come dei contabili: dieci, venti, trent’anni, fa. “Una volta” è un tempo più dello spirito che fisico.

Dopo l’amplesso, Burton ci fa vedere Angelique, la strega feticista, che fuma, soddisfatta, e con un piede cerca di stuzzicare ancora Barnabas, che ha una fissità di pietra e dirà poi alla donna che non intende proseguire ad accondiscere al suo desiderio che lo porta a unirsi con lei. Angelique, in questa scena ha una gamba con la calza e l’altra no, ma probabilmente non siamo in molti a notare e a perderci dentro queste aporie. Il film così rotondo e divertente e ben scandito nelle situazioni e nei dialoghi (Barnabas ad Angelique: «Nemmeno Afrodite stessa potrebbe concepire un’unione così odiosa», quando vuole negarsi a lei, prima che la strega gli mostri i suoi decisivi argomenti, il decolleté di Eva Green: «Ohhh… Devo ammettere che non hanno minimamente subito l’ingiuria del tempo…»), era troppo bello per piacere ai fan di Burton e per poter essere apprezzato da chi Burton lo odia a prescindere. E non c’entra proprio niente con il vecchio Dark Shadows con cui si potrebbe persino dire che quasi quasi non condivide neppure i fatti.

Questa strega feticista di Burton è bella, questa strega di Burton è sessualmente vorace, questa strega di Burton ributta in secondo piano il fatto di essere malvagia, che diventa burla, battuta, diventano le mammelle di Angelique che “Belzebuth amerebbe sicuramente succhiare”, come dice Barnabas nel suo pittoresco e forbito linguaggio. E ributta in secondo piano anche i poteri e tutti quegli affari magici che piacciono alle masse: fa solo un paio di trucchetti,  quando con un cenno della mano incatena il vampiro nella bara e poi nella pirotecnia del finale, perché lì sono atti dovuti. A Burton, della strega interessa altro. C’era uno tanti anni fa  – uno che Burton conosce e apprezza e non ne ha mai fatto mistero – al quale della strega che portò sullo schermo interessava altro che il fatto che fosse malvagia e che le avessero ribattuto a colpi di martello sulla faccia una maschera di ignominia, di condanna e di supplizio. Parliamo di Mario Bava e parliamo della sua strega palindroma Asa, Barbara Steele, che in un paragone con Eva Green non le leva niente e anzi, se uno le continua a guardare attentamente, prima una e poi l’altra, deve notare che in qualcosa si corrispondono – non sto arrivando a dire che Burton abbia scelto la figlia di Marlène Jobert pensando alla Steele ma sto dicendo che, se lo avesse fatto, avrebbe operato una scelta felice. Per tornare un attimo alla sequenza clou di Dark Shadows, l’invito allo spettatore è di concentrare l’attenzione su come cambia la faccia di Eva Green quando strappa la camicia a Johnny Depp, prima di buttarsi all’indietro a gambe larghe sul divano, attendendo che lui operi. Il viso le cambia, per un attimo che però è lungo e fantastico, e diventa quello che un paragone un po’ surrealista potrebbe essere con una volpe affamata – la Green che l’ha già di suo, una fisionomia un po’ volpina. Beh, quella prerogativa metamorfica nella faccia era tipica della Steele, che nel volgere di un secondo, nei vecchi film gotici italiani, poteva cambiare, divenire altro,

Se la “sensualità sfibrata, decadente e come malata” – mi sto citando – di Asa sembra abbia poco da spartire con la voracità e la rapacità erotica di Angelique, la corresponsione tra le due streghe è comunque potente nel fatto che suscitano il desiderio. Non la paura o il ribrezzo o l’odio, ma il desiderio. Bava, (al netto della sua arte e della sua tecnica superiore), perché, giudicandone a posteriori, storiograficamente, fa saltare il banco nel 1960 con La maschera del demonio, se non perché mette la strega nella sua valenza vaginale al centro della storia? Ma quelli che allora come oggi apprezzano il film, lo apprezzano forse per lo studio che il regista architetta nei piani sequenza, forse per i valori formali e cromatici o per tutta quella serie di cose astratte e di concetti alati con cui ci facciamo belli quando oggi scriviamo della Maschera del demonio? No, di certo. Lo apprezzano e lo apprezzarono perché si accorgevano che Bava non usava la retorica del genere che lo aveva preceduto, non andava in scia alla Hammer. Per lui, la strega – Gogol o non Gogol – era stimolante, divertente, interessante studiarla e proporla come una perturbazione sessuale. Tant’è che la duplica, la rende doppia e utilizza la dicotomia fondamentale santa/puttana per intrigare lo spettatore. Se ti innamori di una strega, fai la fine di Eracle al bivio, nell’incertezza di sapere se la strada che sceglierai ti porterà al suo sesso o alla perdizione.

Il padre di Bava, Eugenio, soleva ripetere l’apoftegma: “Il cinema si farà, finché ci sarà la figa”. Una legge universale che si applica non solo all’esterno (come intendeva Eugenio Bava) ma anche all’interno, alla cabala su cui si regge ogni buona storia che vada a finire sullo schermo. Poi naturalmente c’è La maschera del demonio di Bava e c’è L’amante del vampiro di Renato Polselli, la base come dire? “vulvare” è la medesima ma l’approdo finale, l’orgasmo, possiede intensità ben diverse. La maschera  è il primo anello di una catena cui Dark Shadows avrebbe dunque il diritto di agganciarsi, con questa sua strega che mette tutta la mitologia in subordine alla femminilità, esattamente come la triste, languida e palindroma Asa – alla quale va riconosciuta, e non certo come minoritaria, la componente feticistica, a cominciare dall’oggetto che la definisce per metonimia nel titolo del film.