La scelta di Anne – L’Événement
La rappresentazione dell’aborto

Francia, 1963.
Anne (nel film interpretata dall’attrice Anamaria Vartolomei) è una studentessa di lettere, ha 23 anni e sogna una vita divisa tra scrittura e insegnamento. È ambiziosa, brillante e determinata. Ha delle amiche con cui condivide confidenze e riflessioni e la sua personalità la rende attraente agli occhi dei ragazzi.Poi ad un tratto tutto cambia. Quando scopre di essere incinta, non ha esitazioni. È decisa ad abortire, ma la legge non glielo permette. I medici non la aiutano. Le amiche la lasciano sola. Gli uomini la guardano con occhi diversi, languidi. La scelta di Anne, anche titolo del film, ricade sull’aborto clandestino. Le conseguenze terribili non tarderanno ad arrivare. La regista francese Audrey Diwan, che con quest’opera presentata alla Mostra del cinema di Venezia nel 2021 si aggiudica il Leone D’Oro per il miglior film, traspone sul grande schermo il romanzo autobiografico della scrittrice Annie Ernaux. Il libro, uscito in Francia nel 2000, viene tradotto in italiano e distribuito nel nostro paese solamente nel 2019, raggiungendo ottime vendite. Ciò che accomuna Audrey Diwan e Annie Ernaux è lo stile asciutto e diretto, privo di moralismo e svuotato di romanticismo. Sia il film che il libro disturbano profondamente il pubblico senza preoccuparsene, anzi, l’intenzione sembra essere inevitabilmente quella di scuotere chi legge e chi guarda attraverso l’esposizione di una realtà priva di retorica. Mentre il libro comincia dalla fine per raccontare a ritroso l’evento di trent’anni prima (scelta suggestiva, gestita a mio avviso meravigliosamente dall’autrice, con la solita acutezza pungente che la contraddistingue), il film sceglie invece di aprirsi su uno schermo nero accompagnato da un sottofondo di voci femminili. Nel primo fotogramma compaiono tre ragazze; sono intente ad osservare e cambiare i loro corpi davanti ad uno specchio in vista di una festa. Anche questa scelta narrativa ha una sua efficacia profonda, perché dopo i primi minuti di film capiamo subito quanto il corpo abbia un ruolo centrale nella storia e quanto ne abbia altrettanto, e spesso in modi sbagliati, nel contesto sociale. L’atmosfera che si percepisce è ricca di una complicità femminile destinata però a mutare nel giro di poche scene. I giorni cominciano ad essere scanditi da un’assenza, quella del ciclo mestruale. Tre settimane, appare scritto in sovraimpressione sul volto preoccupato della ragazza.
Il trascorrere lento del tempo viene reso attraverso una luce opaca che sembra sospendere la realtà e l’utilizzo del fuori fuoco rende al meglio il senso di isolamento e di angoscia vissuti dalla protagonista. La scrittrice utilizza la seguente frase per restituire l’attesa di quel periodo e renderla evocativa: «I mesi successivi sono bagnati da una luce di limbo. Il tempo è diventato una cosa informe che avanzava dentro di me e che bisognava distruggere a ogni costo». Si giunge alla scena della visita medica. Questo momento, oltre a costituire il vero punto di non ritorno per il personaggio, è rivelatore del profondo bigottismo insito nell’istituzione ospedaliera. Nel film il primo medico da cui Anne riceve la notizia della gravidanza si dice desolato, ma non può aiutarla. Il secondo medico, quando comprende la volontà della ragazza di abortire, le intima di andarsene. Le vengono prescritte delle iniezioni di estradiolo per far tornare il ciclo, ma non funzioneranno. Nel romanzo la protagonista si arrende definitivamente alla consapevolezza di essere incinta mentre, al cinema, guarda Il posto di Ermanno Olmi. L’indomani si reca dal medico, dove le arriva la conferma delle sue paure, seguita da una frase terribile e definitiva «i figli dell’amore sono sempre i più belli». Vi è una scena particolarmente incisiva nella sua semplicità, mostrata subito dopo la notizia della gravidanza: Anne viene ripresa mentre raggiunge le sue amiche dopo le lezioni universitarie e con loro inizia a ripassare la coniugazione dei verbi latini. Il verbo in questione, ripetuto più volte come fosse un mantra, è “agire”. Ed è l’azione l’unica soluzione al problema. I continui riferimenti culturali ed intellettuali presenti all’interno della narrazione hanno una funzione molto precisa che nel romanzo emerge in maniera più evidente rispetto al film: l’essere incinta rappresentava, all’epoca, l’abbandono degli studi, l’interruzione della carriera professionale e nell’immaginario della protagonista, cresciuta in una famiglia di operai, un ritorno alle origini e una rinuncia al sogno di poter accedere al mondo accademico. I molti momenti scanditi da citazioni di film, opere letterarie o spettacoli teatrali hanno dunque il compito di sottolineare la distanza che l’evento, ai tempi, era destinato a creare tra la donna e l’accesso alla cultura e quindi l’ulteriore angoscia che questo crea in Anne e alla prospettiva dei suoi sogni che le si infrangono davanti.
Quando, stanca di tenere il segreto per sé, rivela il suo stato di gravidanza ad un amico, spinta anche dalla speranza che lui conosca qualcuno disposto ad aiutarla ad eliminare il problema, quest’ultimo inizia ad importunarla e le propone di fare sesso con lui «Tanto sei già incinta, non succede nulla». Anche nel libro, così come sullo schermo, viene sottolineato e ribadito il comportamento degli uomini di fronte all’evento. Se il fidanzato di Anne risulta non solo assente, ma anche deluso del fatto che lei non sia ancora riuscita a liberarsi del feto – «Pensavo fosse una cosa risolta», dirà, come se dal momento che il corpo contenente “il problema” appartiene alla donna, lei ne sia l’unica responsabile-, l’amico invece trova eccitante l’avere a che fare con una ragazza sul punto di compiere un gesto illegale: «Appena ha capito gli è venuta un’espressione di curiosità e godimento, come se mi stesse immaginando con le gambe spalancate, il sesso esposto e offerto». E poi vi è ovviamente la figura del medico. Come viene riportato nel romanzo «tutti sapevano bene che, anche se le avessero ostacolate nel loro proposito di abortire, quelle stesse donne l’avrebbero fatto comunque, in un modo o nell’altro. A fronte di una carriera rovinata, un ferro da maglia nella vagina aveva ben poco peso!» Ma l’indifferenza e il rifiuto ad intervenire chirurgicamente non sono l’aspetto peggiore del doversi rivolgere ad un professionista. Ciò che emerge in maniera ancora più disturbante in entrambe le forme della storia è la forte spinta al giudizio e alla condanna nei confronti della donna. Colpevole sembra essere la parola non detta, sottotesto del silenzio che aleggia negli ambulatori sanitari. Nelle scene centrali dei tentativi di aborto, prima da autodidatta e poi per mezzo di una sonda applicata da un’infermiera pagata illegalmente, non vi sono ellissi temporali: ogni azione viene mostrata, proprio per mantenere fede al coraggio dimostrato nel libro, in cui la scrittrice riporta ciascun dettaglio che la sua mente sia riuscita a registrare all’epoca dei fatti. Le immagini create dalla scrittura sono nitide quanto quelle riprese dalla macchina da presa. Il film è particolarmente crudo e diretto e non risparmia la visione del sangue e la rappresentazione del dolore e della sofferenza.
Anche dalla scelta registica di non omettere immagini inevitabilmente disturbanti, emerge quanto sia stata forte e radicata la volontà di anteporre la verità sull’argomento ad un’estetica edulcorata e patinata. Lo stile scelto per le riprese, infatti, ricorda quello documentaristico, con la macchina da presa che segue la protagonista, indugia sulle sue espressioni, sui suoi gesti, con un ritmo lento volto a registrare ogni particolare. Questa storia, riportata in auge tramite il grande schermo, arriva in un momento storico in cui il diritto all’aborto subisce diversi attacchi e numerose limitazioni. Solo negli ultimi due anni si è visto come la Polonia sia stata mossa da battaglie femministe e da piazze affollate di donne determinate a cambiare la legge vigente nel loro paese, secondo cui l’interruzione di gravidanza può essere operata solo in caso di pericolo di vita o di stupro. Quattro mesi fa lo scandalo che ha colpito gli Usa ha occupato per giorni le prime pagine dei giornali: la corte suprema ha ribaltato la sentenza Roe contro Wade che rendeva legale l’aborto, dichiarandola incostituzionale e lasciando i singoli territori liberi di decidere se praticarlo o meno. La maggior parte degli Stati è dichiaratamente conservatrice, quindi è chiaro come questa mossa sia stata costruita al fine di limitare la libertà della donna. E giungiamo infine in Italia. Tralasciando una destra, ormai vicina all’ascesa governativa, che si dichiara prolife e contraria all’aborto, si ricorderanno sicuramente i titoli delle maggiori testate giornalistiche italiane che qualche mese fa creavano una profonda sensazione di sconfitta “Nelle Marche e in Umbria le giunte regionali guidate da Lega e Fratelli d’Italia vogliono limitare l’accesso all’aborto farmacologico” o “A Cosenza anche l’ultimo medico pro aborto è diventato obiettore di coscienza.” Questo implica che, dal 1978 ad oggi, la situazione non è tanto differente. Il Ministero della Salute dichiara che ad oggi le donne che in Italia praticano l’aborto clandestino- che ormai è sempre meno chirurgico e sempre più farmacologico- sono tra le 10.000 e le 13.000 all’anno. Oltre ad una scarsa informazione sia tra le pazienti, sia tra il personale sanitario, si registrano altri due limiti grandi all’applicazione della legge 194: l’obiezione di coscienza che costringe a preferire metodi meno sicuri, sia lo scarso utilizzo della pillola RU486. Quest’ultima può essere somministrata entro il quarantaseiesimo giorno di gravidanza, ma spesso il tempo che decorre tra la scoperta dello stato di attesa della donna e il rilascio della dichiarazione di gravidanza è tanto lungo da rendere inutilizzabile la modalità farmacologica. E il grande numero di medici obiettori di coscienza rende difficile ripiegare sull’aborto chirurgico. Un numero di donne nuovamente in crescita sceglie quindi di acquistare farmaci online o di rivolgersi a persone non qualificate, mettendo a rischio il proprio stato di salute pur di proseguire nella scelta. Nell’adattamento cinematografico di Audrey Diwan non ci sono dettagli evidenti che evidenzino l’epoca storica in cui si svolgono i fatti. L’atemporalità della pellicola riflette e fa riflettere su quanto la situazione di oggi non sia così diversa dal 1963 e su come, nella realtà dei fatti, il diritto all’aborto e il conseguente diritto alla libertà di scelta, sia appeso ad un filo sempre più corroso. Per questo motivo il film non si pone come registrazione di una condizione storica superata, quanto più come una denuncia di ciò che ancora non riesce a cambiare. Concludo questo articolo con un’ulteriore citazione di Annie Ernaux, che già dodici anni fa, proponeva una riflessione ancora oggi attuale: «Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che «le cose sono cambiate».”