La piccola cineteca degli orrori

Manos: The Hands of Fate: storia di un autentico oggetto di (s)culto cinematografico
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Ogni film è, in un modo o nell’altro, una scommessa. Con il pubblico, con la critica e, per coloro che lo realizzano, in primis una sfida con sé stessi. Ma per alcune di queste pellicole la scommessa è alla base della loro stessa genesi, frutto di un azzardo senza il quale tali entità probabilmente mai avrebbero avuto il disonore di venire al mondo. Ed appunto di uno di questi fetentissimi figliocci del caso che oggi vogliam parlare, catapultandoci in quel lontano e glorioso 1966 durante il quale, in una non ben precisata lercia caffetteria di El Paso, l’intraprendete commerciante di fertilizzanti Harold P. Warren, durante un pomeridiano alcolico bagordo assieme all’amico sceneggiatore Stirling Sillphant – conosciuto durante una comparsata nella serie televisiva Route 66 –, decise di accettare un’insolita sfida: dimostrare che chiunque possiede in sé il germe del perfetto regista. Scarabocchiate quattro righe di sceneggiatura su di un tovagliolo macchiato di senape, il nostro coriaceo texano decise di dar seguito al proprio voto e di realizzare, così su due piedi, un vero film, racimolando il tempo record la discreta – ma assolutamente insufficiente – sommetta di diciannovemila dollari e ottenendo dall’anziano ex giudice della contea Colbert Coldwell il permesso di usare un intero ranch come sede delle riprese. Chiamata a raccolta una ristrettissima masnada di locali attoruncoli teatrali e assemblata con sputo una troupe con un livello complessivo di competenza pari a quello di una classe da asilo nido, il caro Harold P. si apprestò a battere il primo ciak del suo cinematografico esordio, per il momento etichettato con il nomignolo di The Lodge of Sins. Ma prima di aprire le filmiche danze occorre mettere in chiaro fin da subito come stanno le cose: baiocchi per pagare gli stipendi non ce ne sono. Ergo la nostra scalcinata armata Brancaleone dovrà faticare con la sola promessa di ricevere, in un futuro lontano lontano, una piccola percentuale sugli incassi. Qualora ve ne siano, ovviamente. Si perché, viste le indecorose premesse, il condizionale è più che mai d’obbligo… Ed è qui che ha inizio una folle epopea degna di uno dei migliori deliri dei Monty Python, con attrici infortunate già durante il primo giorno di riprese, la pressa di dover riconsegnare quanto prima l’armamentario tecnico noleggiato e l’impiego di un’unica cinepresa 16mm in grado di registrare per soli trentadue secondi alla volta, con tutte le ovvie future difficoltà in fase di montaggio. Se poi ci si aggiunge una devastante incompetenza diffusa tanto sul versante attoriale quanto su quello tecnico, capite bene quanto le previsioni per una catastrofe fossero ben più che semplicemente annunciate.

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Ma bando alle ciance e tentiamo di dar conto ai nostri fidi lettori di quale straordinaria narrazione si nasconde dietro a questo macilento baraccone, nel frattempo ribattezzato. Dunque, da dove iniziare? Dal principio ovviamente; da quella interminabile sequenze di apertura che avrebbe dovuto ospitare dei titoli di testa che il nostro incapace cineasta non è stato evidentemente in grado di gestire. Sequenza che ci mostra un’allegra famigliola composta dal padre Michael (Warren medesimo), dalla madre Margaret (Diane Mahree), dalla figlioletta Debbie (Jackey Neyman Jones) e dal cagnolino Peppy per le texane strade alla ricerca di una misteriosa località conosciuta come Valley Lodge. E così, dopo svariati minuti di girovagare senza scopo impietosamente catturati dal lurido obiettivo della cinepresa, nonostante in cielo splenda un brillantissimo sole da domenica ferragostana, la brava mogliettina inizia a lamentare un imminente quanto improbabile sopraggiungere delle tenebre, un piagnisteo che porta l’aitante e mono espressivo consorte a cercare rifugio presso una sinistra magione custodita da un altrettanto sinistro figuro (John Reynolds). Costui fa di nome Torgo, equivoco guardiano della soglia che, provvisto di un paio di sconclusionati arti inferiori che i deliri di sceneggiatura vorrebbero farlo somigliare a un viscido satiro, afferma come il pernottamento presso la casa sia assolutamente impossibile, poiché “il Padrone non approverebbe…” Vabbè… Grazie alla risolutezza del capofamiglia e all’avvenenza della di lui consorte, il buon Torgo accetta di ospitare il gruppetto all’interno di uno spartano appartamento di due metri quadrati che pare uscito da un ostello jugoslavo degli anni 50, nel quale i due genitori riescono persino a perdere di vista per la loro primogenita, nascostasi dietro a un divano collocato a solo cinque centimetri di distanza ma evidentemente impossibile da individuare in una così ampia metratura. Ma ecco che un ululato squarcia la notte, una notte che va e viene con la stessa volubilità di una Bond argentino, portando il buon paparino, ben armato di fucile, ad affrontare le tenebre per rintracciare il cane da poco fuggito e di lì a qualche passo ritrovato cadavere. La cosa inizia a farsi davvero spessa, soprattutto dopo che l’infoiatissimo Torgo, dopo essersi visto per l’ennesima volta respinto dalla bella Margaret, decide di portare a termine il compito che il suo non ben precisato Padrone gli avrebbe assegnato, ovvero rapire madre e figliola per farle divenire le nuove spose di un satanico culto che ha per reliquia la mano mozzata di un’antica divinità. La Manos del titolo, se non si fosse ancora capito. Ma in tutto ciò lo stoico Michael che fine ha fatto? Una fine davvero poco piacevole a dire il vero, tramortito e legato a un albero dal satiro de noartri in quella che è forse la più indecente e celeberrima delle sequenze di questo obbrobrio filmico: un interminabile piano sequenza di quasi due minuti accompagnato da un tema musicale degno della subliminale Sindrome di Lavandonia, impreziosito da un nugolo di fetide svolazzanti falene attirate dal raggio dell’unica scalcinata fonte di luce presente nella scena.

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Il resto, come cantava il buon Califano, è buio… Fra azzuffate in sottoveste tra le mogli dell’esoterico Padrone, sbaciucchianti coppiette in automobile che spuntano come funghi tra un montaggio e l’altro senza la ben che minima funzione narrativa, ciak intravisti a tradimento a bordo inquadratura e, dulcis in fundo, la manazza di Torgo mozzata e data in pasto alle fiamme, ce ne sarebbe ancora da favellare. Ma per quale motivo togliere al nostro affezionato pubblico il piacere della scoperta? Soprattutto nei confronti di un finale sorpresa. Perciò non diremo oltre, se non che, una volta ultimata l’altrettanto impietosa post produzione, Manos: The Hands of Fate fece il suo (in)glorioso debutto al Capri Theater di El Paso il 15 novembre del 1966, nel corso di una cerimonia alla quale presenziarono nientemeno che le maggiori personalità cittadine, al fianco di un nutrito codazzo di amici e parenti. E furono proprio costoro che, incalzati dai primi fotogrammi fuoriusciti da un proiettore di seconda mano scovato dallo stesso Warren, si diedero alle più genuine e grasse risate, costringendo l’intero cast a darsela impietosamente a gambe levate a bordo di una limousine noleggiata per l’occasione. Inutile dire che, dopo essere rimasta in cartellone in alcuni malfamati drive-in del Texas e del Nuovo Messico giusto il tempo per essere vilipesa in egual misura da critica e pubblico, l’opera prima e per fortuna ultima di Warren fece velocemente perdere le proprie tracce, stroncando sul nascere la non certo promettente carriera del proprio autore e ammantandosi di un’aura di autentica leggenda, ulteriormente accresciuta dall’inaspettato suicido del tossicomane John Reynolds a sei mesi dalla fine delle riprese e da voci non meglio confermate circa la totale assenza di un compenso finale per coloro che avevano preso parte a questo maledetto baraccone. Ad eccezione ovviamente della piccola Jackey Neyman Jones e dello scodinzolante Peppy, i quali, a quanto si dice, ricevettero rispettivamente una bicicletta nuova fiammante e una generosa porzione di croccantini. Non è ovviamente possibile per noi comuni mortali capire dove la verità lasci il posto al mito. Sta di fatto che, grazie a un intenso passaparola all’interno del lurido sottobosco dei cinefili di bocca buona e a un sacrosanto ritorno di fiamma in una delle puntante più famose del Mistery Science Theater 3000, Manos: The Hands of Fate è divento nel corso degli anni un autentico oggetto di (s)culto cinematografico, esempio fra i più onesti e puri del trash involontario al punto da generare non solo numerose ristampe prima in VHS e poi addirittura in DVD e Blu-Ray, ma persino un nutrito merchandising con  introiti da capogiro, ponendo il nome di Harold P. Warren accanto a quello dei più laidi registi della settima arte come Ed Woods, Andy Millingan e Marcus Nispel. Ma attenzione amici cari, perché, nonostante questa grande esplosione di fama, le cose non sono cambiate di una virgola, e Manos: The Hands of Fate rimane quello che è sempre stata. Quella  che, fantozzianamente parlando, si definirebbe una sonora, immensa e innegabile cagata pazzesca.