La nuova carne il nuovo sesso

Eros esplicito sullo schermo: soltanto uno stratagemma di mercato o un reale mutamento dello spirito del tempo e un allargamento della sensibilità sessuale?
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È una storia lunga, affascinante e curiosa, quella dei registi, dei produttori, degli sceneggiatori e dei creativi vari che hanno tentato di mettere in scena una sessualità esplicita sugli schermi. Si snoda lungo l’intero percorso della settima arte; coinvolge personaggi insospettabili, intellettuali di rango, cineasti avventurosi; si intreccia con la vicenda altrettanto variegata della censura e dei censori; fa da poderosa cartina di tornasole ai mutamenti negli stili di vita, nelle culture, nelle mentalità.

È una storia che ha due rilevanti punti di svolta. Il primo tra anni Venti e primi anni Trenta: il cinema di massa si depuritanizza; negli Stati Uniti De Mille e Busby Berkeley propongono carne nuda (femminile) a quintalate (memori anche di uno degli episodi di Intolerance del maestro di tutti loro, D.W. Griffith); profughi dall’Europa come Stroheim e Lubitsch si danno a lubricità e perversioni varie (il primo ghignando, il secondo sorridendo); Theda Bara, Gloria Swanson, Joan Crawford, Clara Bow e molte altre avanzano un ideale femminile carnale e sensuale, spesso svestendosi quanto possibile (lo fa persino l’algida Garbo in Mata Hari).

In Europa si va dalla controparte francese di De Mille, l’altro esperto di orge Abel Gance, al von Sternberg dell’Angelo azzurro e al Machaty di Estasi, passando per espressionisti tedeschi, rivoluzionari russi e surrealisti parigini. Il secondo punto di svolta della storia di cui sopra si situa tra anni Sessanta e Settanta: il cinema si emancipa dalle pastoie di un moralismo catto/vittoriano, mette in scena il corpo nella sua totalità con compiacimento, punta chiaramente a illustrare non il mostrabile ma il possibile. I maestri del momento (per non parlare dei professionisti della serie B e dei profeti dell’underground) fanno a gara a chi mostra più centimetri di nudo. Girano scene esplicite (con più o meno «trucchi») Oshima, Bertolucci, Vecchiali, Borowczyk e Bellocchio; le sfiorano da molto vicino Ferreri, Robbe-Grillet, Pasolini, Makavejev, Berlanga, Cavani, Sjoman, Visconti e molti altri; De Palma, Scorsese, Coppola e via dicendo si dicono pronti a farlo al più presto.

L’elemento che maggiormente ci interessa, nel momento in cui ci apprestiamo a confrontarci con una terza fase, quella appunto che viene documentata nel dossier di Nocturno qui presentato – che si focalizza sul cinema europeo; altri ne seguiranno sull’America e l’Oriente –, è che questi due punti di svolta hanno coinciso con quelle che i sociologi e gli storici della cultura definiscono prima e seconda rivoluzione sessuale del Novecento. La prima ha luogo dopo la guerra mondiale, quando le donne conquistano il diritto di voto, escono di casa per lavorare e si scorciano la gonne; i giovani contestano la morale vittoriana e rivendicano autonomia nei rapporti tra i sessi, mentre riacquistano visibilità le idee di libertà sessuale (si pensi per esempio a un Bertrand Russell): è l’era delle flappers, la Jazz Age celebrata da Francis Scott Fitzgerald, con un nuovo tipo di donna (e di uomo), appunto quello disegnato dalle sopra citate Crawford o Bow.

Gli anni Sessanta sono invece il prodotto del boom economico del secondo dopoguerra: le istanze di autonomia dalla morale cristiana tradizionale si ampliano, si rivendica totale libertà sessuale, le minoranze discriminate chiedono il pieno godimento dei diritti civili e la depenalizzazione di condotte sino ad allora aspramente condannate. Non solo donne e gay, non solo aborto e divorzio: tutta la vasta panoplia di quelle che all’epoca sono ancora definite “perversioni” – dalla coprofilia al crossdressing, dalla pedofilia al sadomasochismo – sono culturalmente riabilitate, all’ombra di un relativismo etico che fa piazza pulita delle tradizioni e dei costumi costruiti in millenni di cristianesimo.

In questo momento il cinema diventa un poderoso e creativo commento/incoraggiamento al “mondo liberato” immaginato e disegnato dagli utopisti dei lustri precedenti, dagli hippies e dalle femministe, dai teorici dello swapping e dai propagandisti dell’LSD, dai portavoce della controcultura e dai martiri dei diritti civili. E non lo si vede solo nei maestri di serie A sopra citati (diciamo quelli che vanno ai festival internazionali), ma anche nei deliri di un Franco, nelle allucinazioni di uno Jodorowsky, nelle piccole sconcezze di un Blier.

Quindi, manzonianamente, fu/sarà vera gloria? In altri termini, quella mutazione di cui si offre qui di seguito la fenomenologia – che riguarda, lo sappiamo, una marginalità autoriale piuttosto che la produzione mainstream di massa – riflette solo una furba strategia di mercato (che von Trier, per esempio, ha già dimostrato di padroneggiare con maestria) oppure è davvero il segno di un turbamento dello Zeitgeist, di un ampliamento della sensibilità sessuale, di uno slittamento di immaginario in materia di relazioni personali e rapporti di genere? Prima di provare a dare una risposta, occorre una precisazione geopolitica. Il fatto è che noi italiani ci troviamo in un luogo di osservazione svantaggiato per guardare alle dinamiche dell’immaginario sessuale del primo mondo. Il nostro Paese è l’unico dell’Europa occidentale a non avere alcuna forma di disciplina delle unioni gay. Non ha (insieme all’Irlanda) una legge quadro sulla pornografia. Non è riuscito (stavolta meno solo, ma pur sempre in netta minoranza) a approvare una legge sul testamento biologico (e neppure una sulla libertà religiosa, che parificasse tutti i culti di fronte allo Stato). Abbiamo una legge imbarazzante sulla procreazione assistita.

E il tasso più alto di obiezione di coscienza in tema di aborto. E potremmo continuare così per parecchie righe. Per dirla in altro modo, e per non girare troppo intorno alla questione, la presenza del Vaticano, le strette relazioni tra alte gerarchie ecclesiastiche e potere politico, la totale passività (se non il vero e proprio servilismo) delle forze politiche di sinistra di fronte alla Chiesa, la pochezza della tradizione laica, e via dicendo, sul piano dei diritti civili ci rendono in Europa una mosca bianca. Non è quindi inusuale per gli italiani ritrovarsi in contesti e situazioni retrivi, osservare la persistenza di costumi e idee razziste e discriminatorie, prendere atto delle politiche essenzialmente ipocrite e censorie delle istituzioni.

Ma non è così in Europa. Tra alti e bassi, successi e insuccessi (è di circa un mese fa, al momento in cui scrivo, la notizia che i conservatori nel Parlamento europeo sono riusciti a bocciare una risoluzione su diritti umani che tentava di facilitare la prevenzione e l’educazione sessuale nelle scuole), l’Europa (in particolare quella occidentale e scandinava) sembra maturare man mano una sensibilità più tollerante verso la diversità (sessuale o no), una più consapevole indifferenza (non uso il termine in un’accezione negativa) di fronte alla sfera del privato (e nella sua definizione), un’attenzione maggiore per le categorie sociali e sessuali sinora oggetto di discriminazione.

È forse questo il processo, più culturale che istituzionale, che fa da sfondo ai blow jobs di Chloe Sevigny, Kerry Fox e Isidora Simijonovic: fermo restando la solida attrattiva puramente commerciale del sesso esplicito (per dirla con eleganza, il pelo continua a tirare), è probabile che il lento mutamento di atmosfera di questi ultimi anni in un’Europa sempre più disponibile verso minoranze e differenze giochi un ruolo di qualche conto nella visione della sessualità cinematografica non solo di chi abita al centro del vecchio mondo (francesi, inglesi, belgi, spagnoli) ma anche di chi a questo centro guarda come musa e modello (serbi e ungheresi, per esempio).