La fine delle serie tv complesse?

Da Breaking Bad a La casa di carta: quando il successo non è sempre sinonimo di qualità
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Intorno alla serialità televisiva hanno preso piede, in questi ultimi anni di grande popolarità, diverse posizioni, alcune delle quali obiettivamente risibili. C’è chi spreca il proprio tempo creando un’inesistente competizione con il mezzo cinematografico e chi addirittura si lascia andare ad enormità colossali come “Game of Thrones è meglio di tutto il cinema degli ultimi vent’anni” (sì, c’è chi ha usato queste precise parole, sic). Ma anche i puristi della settima arte non sono da meno, guardando dall’alto al basso un prodotto che, pur affine, si esprime e si esplica in modo ben differente. L’equilibrio dunque dovrebbe essere il metodo nel giudicare la produzione televisiva, così come questo florido periodo che dura dall’inizio degli anni Duemila. Un periodo di cui, tuttavia, si iniziano a vedere i primi cedimenti, specie per quanto riguarda la qualità nello storytelling e nella progettualità produttiva di molte serie tv di grande notorietà. Stiamo parlando ovviamente di pochi esempi di serialità televisiva presi a modello per non mettere troppa carne al fuoco. Come dimostrato da Jason Mittell nel suo preziosissimo Complex Tv, non è necessario fare uso di un numero spropositato di show per esprimere una tesi. Il concetto di “serie tv complessa” offertoci da Mittell è tuttora un valido punto di riferimento per proseguire autonomamente. L’analisi che lo studioso ha fatto, lungo le pagine del suo libro, di Breaking Bad rende il lettore in grado di comprendere la complessità quanto la qualità della serie tv ideata da Vince Gilligan: cinque stagioni di costruzione, di coerenza narrativa e di eccellente sviluppo dei personaggi. Ma anche un’attenzione maniacale alle implicazioni morali che ogni personaggio esprime, a partire proprio da Walter White, la cui parabola umana ed etica dovrebbe, condizionale d’obbligo, spingere lo spettatore a provare sentimenti contrastanti nei suoi confronti. La problematica dell’anti-eroe nella narrazione audiovisiva, si sa, è annosa quasi quanto il mezzo stesso. Nella serialità televisiva odierna non mancano certo le fragilità spettatoriali che portano ad approvare ogni azione di Walter, così come è naufragato qualsiasi tentativo di privare il Ciro Di Marzio di Gomorra – La serie di un’aura eroistica.

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Il problema sta, nel caso dell’Immortale, in un continuo cambio di rotta a livello produttivo e narrativo: prima lo si rende protagonista di un atto abbastanza ignominioso anche per lo spettatore più permissivo, poi se ne decreta la meritevole fine, salvo cambiare idea e “resuscitarlo” inutilmente. Insomma, l’importanza di un personaggio risiede proprio nel senso del suo esserci e del suo raccontarsi. Allo stesso modo si può dire della macro-vicenda, della storia complessa che è apparato vitale di una serie. Come nel caso di Gomorra, il problema emerge proprio quando la sensazione di complessità lascia spazio a quella di un continuum insistito, di un appartamento cui sono già state aperte tutte le porte e finestre e si decide dunque di sfondarne i muri. A cosa è dovuta, altrimenti, la delusione di molti per i series finales di alcune delle più popolari macro-vicende? Siamo ancora freschi di diverse celebri conclusioni, tra cui quella della serie più popolare del decennio appena finito, Game of Thrones, capace di scatenare il malcontento e la rivolta di milioni di fan sul web. Questo per dire che lo spettatore può essere soggiogato, costretto a fare il gioco del narratore ma che alla fine non può non sentirsi preso in giro. Ha retto per sapere cosa c’era in fondo al tunnel, ma ha anche avvertito, nel tragitto, il trascinarsi del viaggio. Il tempo dunque è un alleato prezioso: prestabilirlo, sfruttarlo e non dilungarlo fa tutta la differenza del mondo. Oggi come oggi, in un momento in cui molte serie che ci hanno tenuto a lungo compagnia sono giunte al termine, non rimane altro che vedere gli esiti di questa nuova ondata. C’è inoltre un incremento considerevole di proposte televisive in forma antologica, quasi ad ammettere, in maniera non eccessivamente velata, che diversificare all’interno è spesso preferibile e meno rischioso, specie per quanto riguarda prodotti di genere. E anche se importanti brand come American Horror Story o Black Mirror hanno avuto o stanno avendo feedback meno entusiasti, il loro continuo riproporsi in altre forme li salva in parte dall’allontanarsi dal loro pubblico di riferimento e di rimanere fedeli al grande disegno del loro showrunner. Senza dimenticare l’importanza culturale che le serie di Ryan Murphy e di Charlie Brooker hanno tutt’oggi. Rinnegare le ripercussioni che diversi prodotti televisivi hanno avuto sulla società contemporanea non permetterebbe altrimenti di analizzarli a fondo nella loro natura di opere pop.

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Non si potrebbe, ad esempio, comprendere esaurientemente il revival degli anni ‘80 senza passare da Stranger Things, serie postmoderna dagli innumerevoli rimandi. Lo stesso fenomeno del #Metoo ha potuto beneficiare del successo in parallelo di The Handmaid’s Tale, riproponendo l’outfit ancillare ormai diventato riconoscibile, iconico, di culto. Il successo dunque, quando c’è, può raggiungere livelli davvero totalizzanti. Ma il problema della complessità non rimane di secondo piano e allora possono nascere delle incongruenze pericolose. Siamo dunque giunti al nocciolo della questione, alla tesi vera e propria. È acclarato che il successo non è sinonimo di qualità, così come il contrario. Prodotti televisivi come La casa di carta ci mettono dinanzi a dubbi legittimi sulla consistenza di certi exploit, più legati ad aspetti superficiali che contenutistici. Personaggi abbozzati e sviluppi narrativi che mettono a repentaglio la sospensione dell’incredulità: un gruppo di rapinatori eccentrici guidato da un altrettanto irrealistico genio del crimine, capace infatti di prevedere qualsiasi possibile (e anche qualcuna poco probabile) evoluzione del colpo, per rubare soldi nella Zecca di Stato. Cosa rimane dunque di queste mirabolanti imprese delle “maschere di Dalì”? Che rapinare una banca è una forma di ribellione contro il “governo ladro”? Che basta fargli cantare Bella Ciao per far apparire i protagonisti alla stregua dei partigiani, facendo finta che i vari Tokyo e Denver non se ne vadano poi in qualche bella isola a godersi i milioni appena conquistati? Più che ai versi eroici della canzone, il pensiero va all’espressione mai banale “son tutti comunisti col culo degli altri”. Perciò, nessuna complessità. Solo un prodotto onestamente fallace per come è pensato e scritto, nel suo essere privo di profondità e sguaiatamente edonista. Un esempio che dovrebbe mettere in guardia su una possibile deriva o un ritorno ad una forma più banale e semplicistica di fare televisione. Per questo e per tutti gli esempi citati, è importante dunque che quella complessità rimanga l’unico obiettivo, che sia programmata e circoscritta. La pausa a cui tutti siamo costretti in questo periodo difficile può portare consiglio. E anche ispirazione.