Joss Whedon autore di culto

Con Buffy e Dollhouse è riuscito a dare pieno potere alle donne . Con il suo stile narrativo tecnicamente impeccabile si è imposto su piccolo e grande schermo
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Tradizione accademica vuole che si cominci a parlare di Joss Whedon a partire da un aspetto della sua visione abusato, quasi scontato per chi conosce almeno un po’ l’uomo e i suoi lavori: la componente di femminismo che si trova sempre a esprimere. Manifesto eppure mai sbandierato, rumoroso come un albero che cade in un bosco dove qualcuno c’è ma finge di ignorarlo. Finge, perché si può fruire dei prodotti di Whedon senza volerne vedere il messaggio (anzi, uno dei messaggi), ma tutti in qualche misura lo recepiscono. Qualcun altro invece lo sente forte e chiaro: l’albero, il bosco, e pure gli stronzi che fischiettano in un angolo. Sente, vede, comprende e ne parla. Eccoci. Non siamo tantissimi, ma facciamo molto rumore. È un momento storico in cui il nome di chi scrive prodotti di intrattenimento per la televisione finalmente comincia a emergere, facendosi largo tra grandi nomi delle star. Conosciamo quindi Whedon come autore del teen drama vampiresco Buffy, del suo spinoff Angel, dello sfortunato e fantascientifico Firefly, eletto ormai a serie di culto, e del controverso – nel senso che non si riesce a decidere se sia davvero bello e se meriti di essere conteggiato – Dollhouse. Lo conosciamo anche come sceneggiatore e regista dell’unica trasposizione cinematografica Marvel veramente riuscita, The Avengers, e come produttore di Quella casa nel bosco, film che più di ogni altro ha preso le regole del cinema di genere, le ha cacciate in un barattolo low budget, ha shakerato fortissimo e ha esplicitato il risultato in un lungo, divertente elenco di tropi sovvertiti, messi in vetrina e razionalizzati.

In tutto ciò, che sulla carta è uno tra i massimi curriculum dell’autorialità fracassona e con poche pretese, c’è un fortissimo sottotesto intellettuale da cui è difficile sfuggire ma di cui non è facile parlare. Non è facile perché si tratta di una visione esplicitata da una bibliografia fittissima di interviste, saggi, tesi di laurea, libri pubblicati e libri nel cassetto, articoli e commenti, tutti pronti a schierarsi in prima linea quando c’è da dichiarare al mondo che Joss Whedon va preso sul serio, che tra vampiri, botte e mostri ha infarcito i suoi lavori di female empowerment, sradicando i luoghi comuni del genere. Nessuno si sognerebbe, ad esempio, di invitarvi a prendere sul serio Matthew Weiner, colui che ha creato due show serissimi come Mad Men e I Soprano. Whedon, però, che ha debuttato con un telefilm su adolescenti e vampiri, sembra dover girare accompagnato da un lifting intellettuale, da una sorta di guardia del corpo morale che ne protegge l’immagine da chi vorrebbe banalizzarlo. Dopo un’attenta analisi dei pregi contenutistici della sua opera, di messaggi e linguaggi, di tridimensionalità e figure retoriche, ci siamo erti a suoi paladini, forti di una rabbia e di un senso di superiorità da eterni incompresi. Ora è il momento di fare un bel respiro, sorridere a tutto ciò che Whedon ci ha dato e riconoscergli altri meriti: quelli importanti, che permettono al messaggio di essere così accessibile e che dovrebbero concederci un po’ di sosta dalla nostra missione. Il fatto è che ci sono autori televisivi e cinematografici “tecnicamente” migliori di Joss Whedon.

Ma JossWhedon è il pacchetto completo. Giusto per usare un archetipo televisivo e cinematografico, si presenta come il ragazzo tecnicamente imperfetto che però ci mette il cuore, impara a credere in sé stesso e vince. Spoiler: non lo è. Dimenticate la retorica dell’artista maledetto che vince in spregio alle regole. Il successo di Whedon non potrebbe essere meno casuale, o meno romantico: è uno che lavora, che non lascia nulla al caso, che programma nel dettaglio ogni svolta narrativa, ogni battuta. Gli episodi delle sue serie, dal più al meno riuscito, sono tutti frutto di una mappa logica che si traduce in un diagramma su carta: sa già, prima di scrivere le battute, dove sarà la scena d’azione, dove il momento comico, dove quello drammatico, e quali conseguenze comporterà ognuno di questi. Per noi spettatori significa trovarci di fronte un’opera ricca, stratificata, priva della fastidiosa impressione che la narrazione stia procedendo alla cieca. Guardare Buffy è divertente. Ha una trama verticale (il “mostro della settimana”) che si intreccia, con vari gradi di articolazione, a una più ampia trama di stagione, che a sua volta non manca di collocarsi nel quadro più ampio del corso dell’intera serie. Anche nei suoi momenti più esistenzialmente metaforici, non sbalza mai lo spettatore fuori dalla dimensione-storia. Fa, come si dice, il suo sporco lavoro: racconta, coinvolge, intrattiene. Il fatto che poi sia possibile prenderne ogni aspetto e analizzarlo sotto il microscopio della metafora, del messaggio, della qualità di scrittura e di invenzione creativa, non fa che qualificare Whedon come

Autore, con la maiuscola all’inizio. Ma è un plus, non toglie nulla al fatto che sia possibile guardare un episodio di Buffy, o di Angel, o di Firefly semplicemente per rilassarsi: difficile fare lo stesso con altre serie d’autore. La capacità di intrattenere prima e di offrirci un messaggio da portare con noi dopo, è ciò che rende Whedon una delle più grandi menti creatrici di narrazione seriale: perché sa che il suo è un lavoro, prima che un’arte, e nel suo lavoro è un professionista; perché sa intessere d’arte il suo lavoro, e farcela scoprire, un dettaglio alla volta, a ogni rewatch, senza per questo appesantire la narrazione per lo spettatore casuale; perché è forse il più onestamente femminista tra gli autori in un mondo – quello dello spettacolo – in cui ancora si fa fatica a superare lo stereotipo di genere. Personaggi come Buffy Summers, River Tam o Echo non si limitano a essere donne forti: sono schiacciate dalla responsabilità che la loro superiorità comporta, ma decise a governarla, a non diventare vittime né degli altri né di loro stesse per quanto tutte e tre dolorosamente frutto di una supremazia altrui.