Jean-Claude Brisseau

La trilogia sull’orgasmo femminile di uno dei registi più affascinanti e inafferrabili del nuovo cinema francese: ossessionato dal lesbo e dai fantasmi
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I Cahiers du cinema hanno eletto Choses Secrètes come miglior film del 2002. E ne hanno proposto una lettura deleuziana molto interessante. Perché convincente, e non la solita fumisteria cervellotica e accademica: Il potere dei sensi – come è stato intitolato in Italia il film di Jean-Claude Brisseau – sarebbe un esempio perfetto di cinema naturalista, come l’Âge d’or di Buñuel, Mister Klein di Losey o Twin Peaks di Lynch, tanto per prendere tre esempi distanti tra loro nel tempo. Il naturalismo si richiama a Zola e si definisce in opposizione al realismo, che a sua volta non è così semplice e scontato dire cosa sia. Immagini-pulsioni, mondi originari e derivati, sintomi e feticci, eterni ritorni; se è possibile applicare queste specie di sciarade, in maniera convincente, a un film come Choses secrètes, i casi sono evidentemente due: o chi lo fa è molto abile ad argomentare o il sistema ermeneutico funziona.

Il cinema di Brisseau – questo va anche detto – è il classico esempio di qualcosa di così ambiguo e impenetrabile che qualunque grimaldello esegetico potrebbe dare l’impressione di fare breccia nel sistema. Choses secrètes racconta un tentativo di scalata sociale compiuto da due ragazze, Nathalie (Coralie Revel) e Sandrine (Sabrina Seyvecou), incontratesi in un locale notturno dove una lavora come spogliarellista e l’altra come barista. Stringono un patto – Nathalie è la maestra e funge da stratega, mentre Sandrine è colei che agisce  – in virtù del quale sacrificheranno al raggiungimento del loro obiettivo tutti gli uomini che saranno necessari, facendoli innamorare con la forza della sensualità e infine frustrandoli, gettandoli via e passando oltre. Il metodo dà i suoi frutti, finché non entra in gioco il figlio del proprietario della ditta presso cui Sandrine ha fatto carriera. Un personaggio sadiano, che scompagina i piani delle ragazze rigettandole sui marciapiedi da cui provengono.

Ma ci sono sorprese. Anni fa su Nocturno lodavamo la “temperie apollinea di tutta la prima parte dove erotismo e noir mantengono un equilibrio encomiabile”, biasimando invece che l’intervento del personaggio sadiano interpretato da Fabrice Deville sbilanci il plot in un “dionisismo di bassa lega” culminante in un baccanale dove – peraltro – appaiono azioni hard. Giudizio duro, da rivedere, anche alla luce di quanto Brisseau fece in seguito, completando una trilogia mistico-tantrista sull’orgasmo femminile, con Les Anges exterminateurs (2006) e À l’aventure (2009). Film altrettanto complessi e avvincenti del primo, benché, a sentire le spiegazioni del regista le cose siano in realtà più lineari di quanto appaiono.

In una lunga e bellissima scena di Gli angeli sterminatori (Buñuel, è ovvio…) il regista protagonista Frédéric van den Driessche è a cena, al ristorante, con due giovani attrici che ha provinato per il suo prossimo lavoro. Le ragazze, Lise Bellynk e Maroussia Dubreuil, vengono invitate a carezzarsi sotto il tavolo, senza però che gli altri avventori se ne accorgano. Sono sei minuti in cui la tensione viene fatta crescere al massimo, secondo l’insegnamento di Hitchcock – la maître va e viene dal tavolo per portare dello champagne e si rende conto di ciò che sta accadendo. La situazione è talmente esasperata che deve sfociare in un completamento, che di lì a poco avverrà nella stanza di un hotel dove le due ragazze si soddisfaranno reciprocamente davanti al regista. Brisseau commentando questo passaggio del film – tecnicamente, un rapporto lesbico è difficoltoso stabilire dove cessi di essere soft e cominci a essere hard: nel caso di specie e in generale in tutti i film di Brisseau, le sequenze non vanno mai oltre la masturbazione clitoridea e non sono riprese in primo piano – dice che i momenti erotici culminanti nel suo cinema corrispondono al momento del delitto in Hitchcock.

Bellezza, calligrafismo e formalismo a parte – siamo di fronte a ordinatissimi tableaux vivants dove nulla è mai fuori registro o scomposto o casuale: si veda la scena a tre, a letto, con la Bellynk, la Dubreuil e Marie Allan, che è il cuore del film – l’acme sessuale ha effettivamente l’aspetto del compiersi di un rito, del perfezionamento di una cerimonialità che prelude al Mistero, alla cui penetrazione tutti gli sforzi di Brisseau sono consacrati. In qualche modo, però, per questo autore che ha il fisico di un colosso e la delicatezza di un bambino nel maneggiare la tematica più scabrosa, il femminile esiste di per sé e si compie di per sé. È una dimensione in cui l’uomo non entra e può – al massimo – testimoniarla. L’uomo che non sia Brisseau, beninteso, il quale è l’unico che sopravviva, come maschio, al proprio cinema; diversamente gli uomini, ai suoi occhi cinematografici, sono creature deboli o orribili, da non considerare o da uccidere: esattamente ciò che fa la Revel al termine di Choses secrètes, in un finale bellissimo, pieno fino all’orlo del Potere della Morte.

La presenza della Grande Torre, è un altro punto nodale in Brisseau: anche per lui, come per i Pitagorici, l’aria è abitata da demoni, da presenze che in ultima analisi si rivelano emanazioni e agenti della Morte – e l’ultimo, magistrale, film del regista, La fille de nulle part conclude (ovviamente alla Brisseau, senza nessuna grevità esplicativa totale) un discorso sulla Signora in nero e sui suoi emissari cominciato da parecchio tempo in qua. Choses secrètes dialettizza fin dalla inquadratura iniziale, spaccata in due tra le evoluzioni nude della Revel e una figura velata che reca un falco, gli emisferi di un cinema che si smarrisce tra la contemplazione dei sussulti di un corpo femminile in marcia verso la grande incognita dell’orgasmo e la consapevolezza che lo spazio attorno a noi sia ricco di un pleroma altrettanto indecifrabile.

Il terzo film del ciclo, À l’aventure, ha tentato di gettare un ponte che unisse gli estremi del piacere massimo e di questo regno delle ombre, arrivando alla regressione ipnotica come portone di accesso alla coscienza superiore e più vasta che ci attornia. Ma l’affondamento mesmerico in un passato che conduce all’estasi riguarda un personaggio femminile laterale, quello di Nadia Chibani – per quanto in Brisseau nessun personaggio femminile possa dirsi laterale, ciascuna essendo parte di un insieme complesso. Carole Brana, l’eroina alla quale è evidente che il regista si interessa in modo particolare, è in fuga dalla routine sia dei sentimenti sia del sesso sia del lavoro, e muove “all’avventura” passando attraverso il rapporto con uno psichiatra, incontrando l’esperienza di orge lesbico-mistiche – con la Chibani e l’onnipresente Lise Bellynk – e infine venendo iniziata al materialismo cosmico da uno spartano taxista filosofo (Etienne Chicot, straordinario) che vive sulle alture piene di sole e di vento. Della trilogia è il film più impervio ma anche, nello stesso tempo, il più semplice, perché la tenica di Brisseau è sublime e disarmante nella capacità, totalmente classica, di restituire in un’inquadratura il compendio di un universo. Non decifra il mistero dell’aldilà, qualunque cosa sia, al quale conducono la carne o la mistica, ma si arresta sulla soglia, a contemplarlo, quieto, in un lucore abbacinante.