Jean-Claude Brisseau

I misteri del desiderio e del piacere femminile
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Jean-Claude Brisseau, cinefilo fin dall’infanzia, era nato il 17 luglio 1944 a Parigi. Divenuto regista, autore di 18 cortometraggi e lungometraggi, per il cinema o la televisione, è nella stessa città che è morto l’11 maggio 2019, all’età di 74 anni. La vie comme ça, il suo primo lungometraggio professionale, è stato originariamente girato per la televisione. Brisseau, insegnante e regista amatoriale, aveva prima girato un film in Super 8, La Croisée des chemins, che era stato notato da Pialat e Rohmer. Il film è stato restaurato alcuni anni fa. Ed era stato allora possibile osservare che tutti gli elementi del suo lavoro erano già presenti in questo saggio, che proponeva di fare il punto della Francia post-1968, e si avventurava nei territori del soprannaturale e dell’inconscio. La vie comme ça, già un capolavoro, è stato nel 1978 il primo film a mostrare la violenza e la disumanizzazione delle grandi città, con un realismo e una crudeltà che non potevano non evocare Buñuel. Lo sguardo politico di Brisseau su un argomento che conosceva molto bene per averlo vissuto dall’interno si colorava di fantastico ed evitava il puro naturalismo. Un jeu brutal  (il thriller metafisico dove ha incontrato il suo attore preferito Bruno Cremer) e Furore e grida (che evoca con poesia, ma con franchezza, un insopportabile clima di violenza in periferia) lo impongono come una delle maggiori rivelazioni del cinema anni 80 francese.

Noce blanche, nonostante la serietà dei temi e le esigenze intransigenti della messa in scena di Brisseau, è stato un enorme successo commerciale nel 1989, in gran parte grazie a Vanessa Paradis, allora considerata una piccola e sciocca cantante, che si è rivelata sotto la direzione di Brisseau, un’attrice eccellente. Noce blanche, storia di un amore impossibile, propone come tutti gli altri film di Brisseau un interrogatorio filosofico sul significato della vita, nelle emozioni e negli atti. Un insegnante di filosofia afflitto dalla noia e dalla solitudine, nonostante il suo successo professionale e sentimentale, cade sotto l’incantesimo di una giovane studentessa brillante, ma fallimentare a scuola, a causa di una vita disordinata e di un passato misterioso. Lei rappresenta il suo doppio apparso nella forma di angelo sterminatore, e l’uomo perderà la possibilità offertagli dal Destino, per paura. Realizzato dopo il trionfo di Noce blanche, Céline (1992) con Isabelle Pasco e Lisa Heredia – la sua musa e compagna di una vita, presente fin dai suoi primi film in Super 8 – è un altro magnifico film di Brisseau, che affronta questioni metafisiche e filosofiche attraverso la storia di una ragazza suicida che ritorna in vita attraverso la meditazione trascendentale e lo yoga. L’angelo nero (1994) con una sorprendente Sylvie Vartan è il grande film maledetto di Brisseau, incompreso a suo tempo, che oggi ci appare come un sublime melodramma post-hollywoodiano, dove si afferma la visione tormentata del regista su amore, desiderio e corruzione. Il film è liberamente ispirato a Ombre malesi (1940) di William Wyler e mescola a una critica implacabile del mondo del potere e denaro alle altre fantasie cinefile ed erotiche di un regista che è sempre più ossessionato dalla gioventù femminile e dai rapporti tra sesso, misticismo e lotta di classe.

Les savates du bon Dieu (2000) è una sorta di poesia elegiaca sulla ricerca dell’assoluto. Il film consiste in un audace mix di generi che il regista sperimenterà anche nei suoi successi film, Choses secretes e Gli angeli sterminatori. Melodramma, inchiesta sociale, thriller, thriller erotico … In una città di provincia, un meccanico follemente innamorato della moglie, viene lasciato da quest’ultima che sogna il lusso e la ricchezza. Comincia così un frenetico inseguimento in cui l’uomo coinvolge il suo amico d’infanzia, segretamente innamorato di lui. I due giovani commettono diverse rapine, incrociano sul loro cammino un cantastorie africano, attraversano i diversi strati della Francia, dalla piccola delinquenza sordida alla borghesia appariscente e corrotta. Jean-Claude Brisseau, al riparo da mode e discorsi dominanti, si isola un po’ di più con questo magnifico film che non incontrerà il successo al momento della sua uscita. Les savates du bon Dieu, condensato delle ossessioni e delle convinzioni che fondano il cinema di Brisseau, è il suo titolo più esaltato, un melodramma dal lirismo torrenziale che convoglia idee e sentimenti “più grandi della vita”. Les savates du bon Dieu abbraccia con un sublime slancio la società francese, il cinema e l’amour fou. Il film sublima le sue giovani attrici con un’immagine sensuale e fantasmatica e osa confrontare l’estetica della serie B (un inquadratura cita La sanguinaria di Joseph H. Lewis, altre evocano Nicholas Ray) o del fotoromanzo a un critica marxista della società.

Jean-Claude Brisseau ha spesso affrontato temi tabù. In La vie comme ça, ha parlato della vita in periferia; in Furore e grida, si è interessato alla delinquenza. Prima di tutti gli altri. Nei suoi tre film degli anni 2000 (Il potere dei sensi, Gli angeli sterminatori, A l’aventure), ha accettato il rischio di avvicinarsi al più grande dei tabù: il sesso, e più in particolare l’orgasmo femminile. Ne sarebbe rimasto scottato. Brisseau è stato infatti condannato dal Tribunale penale di Parigi il 15 dicembre 2005 a un anno di carcere con sospensione della pena, e a una multa di € 15.000 per molestie sessuali a due attrici durante i provini per il suo film Il potere dei sensi. Alla fine di un processo in cui la sua difesa fu maldestra, rifiutò di fare appello e accettò la sentenza. Questo marchio d’infamia lo accompagnò per tutto il resto della vita. Riemergendo nel mezzo del caso Weinstein, quando i media cercarono equivalenze francesi alle azioni criminali del produttore americano. Il potere dei sensi, uno dei suoi film più belli, mostra come due ragazze sfruttino il loro fascino come un’arma per penetrare nelle alte sfere della società e del potere, in un gioco pericoloso che si rivolterà contro di loro. Con Gli angeli sterminatori (2006) Brisseau approfondisce i misteri del desiderio e del piacere femminile, vissuto come una forma di misticismo, non come un provocatore, ma come un esploratore e sperimentatore, con la complicità delle sue belle giovani attrici, procedendo a un’audace mise-en-abîme e ad un gioco di specchi (il film ritrae un regista preso nella trappola del suo stesso lavoro e fa riferimento diretto al caso Il potere dei sensi).

Dopo un film un po’ meno sulfureo ma anche meno convincente (A l’aventure), La fille de nulle part (2012) è un commovente ritorno alle origini. Il film è autoprodotto, interpretato da Brisseau, e sostanzialmente girato nel suo appartamento, un po’ come i suoi film amatoriali degli esordi, e il digitale (utilizzato per la prima volta da Brisseau) sostituisce la Super 8. Il film fa pensare a quei lavori di cineasti che non hanno nulla da dimostrare ma sono ancora assetati di sperimentazione, come gli ultimi film di Francis Ford Coppola, Jean-Luc Godard o Alain Cavalier. La delimitazione del soggetto (il rapporto platonico tra un vecchio professore e una ragazza selvaggia) e mezzi modesti, appaiono, piuttosto che una confessione di rassegnazione, come una vera e propria dimostrazione di forza politica ed economica, un vero e proprio manifesto del cinema di guerriglia. Perché le riprese leggere e il micro budget non significano affatto dilettantismo nelle mani di un cineasta ossessionato dallo stile e dalla forma. Per Brisseau, tutto è questione di messa in scena, e La fille de nulle part è una vera e propria lezione di cinema, sintomatica della fedeltà di Brisseau a certi precetti estetici della New Wave, ma anche al cinema americano classico (soprattutto Hitchcock). Se vi ritroviamo le preoccupazioni mistiche e morali della regista, con nuove incursioni verso il paranormale e lo spiritismo, il film si arricchisce di una dimensione emozionale sorprendente che lo sottrae a una mera esposizione teorica. Con il ritratto di questo uomo che invecchia, idealista e misantropo, Brisseau si impegna in una strana confessione intima, sacrificando per la prima volta all’autobiografia, senza rinunciare alla sua passione per il romanzo. La sua interpretazione è toccante, e conferma la sua reputazione di magistrale regista di attrici, ottenendo meraviglie da Virginie Legeay, ex studentessa che non covava ambizioni da interprete (nonostante un piccolo ruolo in Gli angeli sterminatori). La fille de nulle part ottiene il Leopardo d’oro al Festival di Locarno, assegnatogli da una giuria presieduta da Apichatpong Weerasethakul. Ma nemmeno questo ritorno ai favori della critica riesce a frenare l’emarginazione di Brisseau. Cattivo carattere, cattiva reputazione, cattivo karma. L’ultimo periodo della vita di Brisseau mostra un regista recluso nel suo appartamento, che si macera in pensieri neri, preda di ansie e problemi di salute sempre più opprimenti. L’unica ancora per questo colosso con i piedi di argilla, al di fuori di una piccola cerchia di amici, rimane il cinema. Fedele al cinema che amava da bambino o da adolescente e che rivedeva costantemente, come il suo film preferito, Psycho di Hitchcock, Brisseau era anche uno spettatore compulsivo di film americani recenti, attento alle nuove tecnologie come il 3D, che lo affascinavano.

Il suo soggiorno era spesso trasformato in un cinema, ma anche in un set cinematografico, un bozzolo protettivo in cui non aveva più bisogno di affrontare lo sguardo della società o del mondo del cinema che lo aveva respinto. Nel 2014, ha messo in scena una nuova versione, in digitale e in 3D, di un cortometraggio che aveva prima girato nel 1973 in bianco e nero in 8 mm, poi nel 1975 in super 8 a colori e sonoro. Tutti e tre i film hanno lo stesso titolo Des jeunes femmes disparaissent. Questa terrificante storia di crimini rituali permette a Brisseau di ritornare instancabilmente alle sue ossessioni di regista e di dimostrare una padronanza inarrestabile. Con pochi mezzi e un’arte della suggestione molto sicura, egli riesce a creare suspense e anche scene scioccanti assolutamente gelide. Que le diable nous emporte (2017), film testamento di Jean-Claude Brisseau, torna ai suoi temi prediletti, ma forse in modo più pacifico e ottimista rispetto al passato. Vi sosteneva l’utopia femminile nella stanza da letto, dove l’amore poteva superare l’oppressione sociale e superare la dominazione maschile, con la complicità delle sue attrici Fabienne Babe, Anna Sigalevich e Isabelle Prim. La fede nel cinema non lo ha mai abbandonato, come dimostrano i molti progetti ambiziosi che sognava di girare ma che sapeva condannati in anticipo, per mancanza di mezzi di produzione, ormai inaccessibili – un film sulla Bande à Bonnot di esempio. La sua passione per Hitchcock, Ford o Bresson era anche un potente carburante che ha alimentato la sua vita di spettatore e regista, e lo ha incoraggiato a comunicare la sua comprensione intima della regia dei suoi registi preferiti a chiunque avesse la pazienza di ascoltarlo parlare per ore, abitato da un fuoco sacro. Era rimasto un pedagogo eccezionale. Ahimè, altri demoni hanno finito per consumarlo. Arriverà il giorno, si spera, in cui i suoi film potranno essere riscoperti e ammirati per il loro vero valore, come dei soli neri che inondano di un’oscura chiarezza un cinema francese troppo cartesiano, troppo comodo.