J.J. Abrams, il paradosso

Discontinuo nella sua ricchissima produzione, a partire da Felicity, Alias e Lost, e fino ai film miliardari per il cinema, rimane coerente su una cosa: tutto è mistero
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J.J. Abrams, l’uomo dei misteri, è un paradosso. Soprattutto nel contesto di questo dossier, che raccoglie autori maniacali nell’esercitare il controllo sui propri lavori, la firma di J.J. è l’unica che raccolga un’ampia riconoscibilità da parte del grande pubblico, ma è anche nota per la scarsa continuità d’impegno nelle sue opere seriali. Il creatore di Lost, in fondo, non ha fatto più che scriverne e dirigerne il pilot, ha abbandonato il ruolo di showrunner nel corso della prima stagione per realizzare Mission: Impossible 3 ed è tornato per sceneggiare la premiere della terza annata (uno degli episodi più belli dell’intera serie). Negli ultimi anni, ha messo il suo nome e quello della sua casa di produzione, la Bad Robot, sopra una quantità di progetti più o meno discutibili (da Undercovers ad Alcatraz, da Person of Interest a Revolution), ma sui set si è fatto vedere di rado e ha preferito dedicarsi intensamente al cinema, accaparrandosi il titolo di primo regista al mondo a firmare sia Star Trek che Star Wars. Eppure, c’è un filo resistente e luminoso a legare i suoi progetti (seriali e non), rintracciabile perfino in Felicity, l’esordio televisivo che, da teen drama qual è, sembra c’entrare ben poco con il genere fantascientifico spesso identificato come la costante di Abrams. Quel filo – l’ha esplicitato lui stesso in più di un’intervista e in un’interessante TEDtalk nel 2007 – è fatto di scatole mai aperte, di misteri mai svelati. «Le risposte alle domande non fanno che condurre ad altre domande» si dice in Lost, e su questo assunto incontrovertibile, su questa curiosità bambina e insaziabile Abrams costruisce le sue storie, a questa incatena gli spettatori.

Da questo principio derivano le sue ossessioni, dispiegate su differenti livelli di approfondimento. Il primo, quello più evidente, è, appunto, quello del mistero, sottoforma di enigma cospiratorio, di puzzle frammentato di cui è necessario rimettere insieme i pezzi: solo per fare degli esempi, in Alias sono i manufatti del genio quattrocentesco Rambaldi, in Lost i segreti dell’isola e le coincidenze che legano i protagonisti, in Fringe il “pattern”, lo schema che unisce gli eventi anomali cosparsi durante la prima stagione. La sua è un’idea di mondo fatta di indizi, una gigantesca caccia al tesoro che accomuna protagonisti fittizi e spettatori reali nella ricostruzione di un disegno larger than life dove tutto si tiene o, quantomeno, dà l’impressione di tenersi. Dentro e fuori schermo: a voler credere a questa sua weltanschauung, la rivoluzione apportata da Lost – quel cortocircuito mediale che ha unificato internet, fandom e televisione trasformando la serialità catodica in un’esperienza continuata, intensa e comunitaria – non può essere avvenuta per caso. Gli universi finzionali di J.J. Abrams sono vasti e iperdettagliati, aprono finestre su mitologie dense e offrono pane per i denti di una fruizione di culto, per intelligenze collettive impegnate a collaborare nella decifrazione dell’enigma. Per questo, un’altra delle ossessioni di Abrams è il tempo. O meglio, la sua manipolazione, anche in questo caso intra ed extra diegetica.

Nei celeberrimi flashback di Lost (che, più avanti, diventeranno flash forward, e poi, nella quinta stagione, si tramuteranno nell’effettivo viaggio nel tempo di alcuni personaggi) così come nelle timeline sdoppiate, annodate e parallele di Fringe si può leggere l’ansia dell’indagine, la frenesia della ricerca della spiegazione, del sintomo esplicatore, del segno rivelatore. Un risalire a monte dell’effetto farfalla, per trovare il battito d’ali primigenio. Il tema ricorrente, qui, è quello delle scelte individuali che modificano destini universali: perfino la scintilla che accende Felicity non è che una piccola e banale scelta sconsiderata, quella della protagonista di seguire la cotta del liceo all’università di New York, dalla quale discenderanno a cascata quattro stagioni di incroci sentimentali, amicizie, amori, tradimenti. Dall’altra parte dello specchio (e quanti riferimenti all’Alice nel paese delle meraviglie di Carroll popolano i lavori abramsiani) c’è la vertigine delle possibilità infinite: l’impossibile non esiste, negli universi di J.J., proprio come il cucchiaio in Matrix (ancora Alice in Wonderland!). Che siano realtà parallele (si veda anche il suo reboot di Star Trek, che non azzera la continuity del franchise ma fa slittare la storia, attraverso un’alterazione temporale, in una realtà sottilmente alternativa) o continue riscritture del passato (i segreti dentro i segreti di Alias che, una volta rivelati, ridefiniscono i rapporti e le identità dei personaggi), la sua narrazione è intessuta di what if e di rielaborazione retroattiva, un po’ come quella degli universi fumettistici. Il segno tecnico distintivo di J.J.Abrams, di conseguenza, è il cliffhanger. Strumento fondante della serialità, in Abrams è esasperato e iperbolico, sfida ostentatamente coerenza e sospensione d’incredulità, rialzando sistematicamente la posta in gioco.

Domande che conducono ad altre domande, cliffhanger incatenati ad altri cliffhanger, se è vero che Abrams solitamente non è che l’ideatore dei soggetti (e a volte nemmeno quello), è anche vero che chi prosegue nella scrittura dei suoi lavori (Damon Lindelof, Carlton Cuse, Matt Reeves, Drew Goddard, Alex Kurtzman, Roberto Orci, Adam Horowitz…) sembra non poter fare a meno di utilizzare questo dispositivo narrativo fino al parossismo. Allacciandolo non solo alla spettacolarità di meccanismi fantascientifici e d’azione, ma soprattutto alle relazioni sentimentali e interpersonali dei personaggi. Sci-fi, spionaggio e soap opera fusi in un’altalena relazionale costruita, in ultima analisi, su rapporti genitoriali problematici: una lezione spielberghiana, e infatti è sul cinema del maestro Steven che Abrams si è formato, è a quel cinema che, continuamente, ritorna. Una fantascienza umana, materiale, avventurosa e contemporaneamente metafisica, riassunta nella scatola misterica e paradossale definitiva: lo schermo.