Intervista a Richard Stanley

Dagli anni ribelli dell’apartheid all’arrivo a Londra, dall’incontro con Dario Argento al successo di Hardware, Richard Stanley si racconta
Featured Image

Partiamo dall’inizio. Come hai mosso i primi passi e ti sei inserito nel mondo del cinema?

Ho amato il cinema fin dall’inizio. Quando avevo quattro anni mio padre acquistò una copia di King Kong in 16mm e me la faceva vedere. Sono uno dei tanti a essere stato influenzato da King Kong e dagli effetti speciali di Ray Harryausen. Per anni non facevo altro che costruire minuscoli set, li popolavo di dinosauri o altre creature e poi li riprendevo in stop motion con la mia super8, fantasticando di arrivare un giorno a fare il mio monster movie. Anche Forrest J Ackerman e Famous Monsters of Filmland mi hanno molto segnato. Collezionavo mostri, e a scuola ero il classico teenager un po’ inquietante. Poi ho studiato antropologia, mi sarebbe piaciuto perseguire una carriera accademica.

Ma siccome ero in Sud Africa questo fu un ostacolo. Ero interessato alla cultura e alla magia africane, mi piacevano i film horror, portavo i capelli lunghi, indossavo magliette rock’n’roll, giravo con la telecamera e avevo idee liberali. E negli anni dell’apartheid significava inimicarsi la polizia e andare contro il sistema. Arrivarono a bandire The Rocky Horror Picture Show più altri film come L’ululato di Joe Dante, Scanners di David Cronenberg, L’esorcista. Perfino il mio fumetto divenne illegale, col risultato che mi schierai politicamente ancora di più. Durante la Guerra di confine sudafricana divenni un’attivista e fui costretto a lasciare il Paese. Il gruppo di resistenza faceva uscire illegalmente le persone dal Paese ed è così che mi sono ritrovato a Londra.

Per una serie di circostanze fortuite sono riuscito a ottenere asilo politico e mi diedero un passaporto britannico. Siccome i miei titoli universitari in Inghilterra non avevano valore e non c’era verso di poter continuare in quella direzione, l’unica cosa su cui potevo contare erano dei film fuori di testa che avevo fatto e che avevo portato con me. Fu grazie a questi video che sono riuscito a trovare un impiego nell’industria discografica come regista di videoclip a basso budget. Per alcuni anni ho realizzato uno o due video al mese, il che mi permetteva di pagare l’affitto. Ho anche firmato le copertine dei dischi di diverse band fino a quando, per una serie di circostanze propizie, sono riuscito a realizzare il mio primo lungometraggio.

Come hai trovato chi ti producesse Hardware? Sulla carta è un film abbastanza insolito oltre che essere il precursore del movimento cyberpunk.

A tal proposito mi sono dimenticato di dire che a Londra avevo un cugino. Appena arrivato dal Sudafrica andai a bussare alla sua porta ma aveva paura di aprire la porta. Si è affacciato alla finestra e quando mi ha visto ha detto: «Richard, cosa ci fai qui? Scusa ma non è un buon momento, torna la settimana prossima che pranziamo assieme». Non ho avuto molto aiuto dalla mia famiglia. Non sapevo cosa fare, ero senza soldi e non potevo permettermi un hotel. Trovai un cinema, la Scala, che proiettava film tutta la notte e ho pensato che con 3 sterline e mezzo avrei potuto dormire lì. Invece, uno dopo l’altro e senza interruzione, ho visto per la prima volta in vita mia L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, 4 mosche di velluto grigio, Profondo rosso, Suspiria, Inferno e Tenebre.

Quando finalmente sono riemerso dal cinema mi sentivo cambiato. Avevo capito cosa volevo fare nella vita. In quel cinema ho visto la cultura e volevo farne parte. Poche settimane dopo ho avuto la fortuna di incontrare Dario Argento che era venuto nello stesso cinema per fare un screen test di Phenomena. Era nervoso prima della proiezione, così abbiamo iniziato a parlare e io gli ho offerto da fumare. Era la prima persona del mondo del cinema a parlarmi e da quel momento è diventato un po’ come un padre, un mentore. Quando ho fatto Hardware, sono andato a Roma con una copia del film, ho noleggiato un cinema e gliel’ho fatto vedere insieme a suo fratello Claudio. Hardware è il frutto dell’influenza che Dario ha avuto su di me.

Com’era Dario al tempo? E il vostro rapporto?

Mi è stato subito simpatico e Phenomena l’ho adorato. Mi sono sentito male quando i distributori l’hanno tagliato facendolo uscire come Creepers. Mi ha toccato nel personale.

Siete diventati amici?

Siamo stati amici per molto tempo. Grazie a lui ho anche incontrato Michele [Soavi] e Asia [Argento].

Anche Lamberto Bava?

No lui no. Di Michele ho visto La chiesa prima che venisse doppiato in inglese. Poi abbiamo visto assieme il primo screening di La setta. C’erano anche Herbert Lom e il resto del cast, ma non è piaciuto a nessuno. Un disastro. Michele, depresso, si è chiuso in albergo e non voleva più uscire.

Perché non è piaciuto a nessuno?

La sceneggiatura era incomprensibile e forse Herbert Lom non era molto felice di essere nel film. Con Michele ho cercato di essere delicato, l’ho  incoraggiato e gli ho detto che il film successivo avrebbe dovuto girarlo in Australia, un horror con elementi alla Mad Max, visto che era un fan.

Ora che me lo dici, mi aveva fatto leggere un suo script ambientato in Australia intitolato The Well.

Peccato che non l’abbia fatto. In ogni caso sono contento che sia andato avanti. Dellamorte Dellamore mi piace molto e Deliria mi ha molto ispirato per Hardware.

Ah sì? E in che modo?

Ho sempre desiderato fare un film di fantascienza. Con la mia super8 avevo girato uno pseudo lungo ambientato nello stesso mondo di Hardware anche se la storia era diversa. C’era un personaggio femminile praticamente identico che plasmava una scultura metallica del fidanzato con le mani meccaniche. Gli interni erano abbastanza simili, Shades, il vicino, era lo stesso. Non era però un film d’azione, assomigliava piuttosto a Città amara di John Huston. Un film molto deprimente, sulle difficoltà di vivere nel futuro. Tutti i personaggi erano dei miserabili, depressi, malati di cancro o affetti dalle radiazioni. Con quel film alle spalle e il mio bagaglio di videoclip ho cominciato a sviluppare una sceneggiatura più dettagliata tanto da arrivare senza rendermene conto a scrivere un film praticamente impossibile da realizzare.

Aveva a che fare con i viaggi nel tempo e lo sfruttamento commerciale dello spazio secondo i principi del Building Information Modeling all’interno del sistema solare, con la società che si sbarazzava dei rifiuti tossici dirottandoli verso il sole. Era tutto molto sporco, il contrario del futuro immaginato in Star Wars. Ci ho lavorato per qualche anno, ma quando l’ho sottoposto a diversi produttori tutti mi dicevano che non era possibile fare un film di quelle dimensioni. Era un progetto fuori dalla portata di chiunque. Erano però gli anni del successo di Terminator e Alien per cui mi proposero di rivalutare la proposta a patto che fossi riuscito a concepire un film d’azione inserendovi la presenza di un mostro.

È stato allora che ho visto Deliria e ho capito che dovevo buttarmi in qualcosa di economico ambientato in un’unica location. Un po’ come nel caso del cinema di Demoni. Da qui nasce l’idea dei personaggi rinchiusi in un palazzo, il che non preclude il contesto futuristico, al cui interno c’è un mostro. A questo abbiamo aggiunto degli spunti tipici dello slasher. Tutti questi elementi slasher in Hardware funzionano perché, inseriti in un contesto futuristico, non sembrano i clichè che in realtà sono. Hardware è un compendio di tutte le scene d’azione che siamo riusciti a realizzare fintanto che il budget che ce l’ha permesso. La sceneggiatura era un miscuglio di altre idee che avevo scritto in precedenza per cui non mi convinceva molto. Allora ho messo su il vinile di Phenomena, l’ho ascoltato in continuazione finché non ho terminato lo script. E la mia ragazza mi ha lasciato. Ci ha messo tre anni prima di arrivare nelle mani di un produttore indipendente, Stephen Woolley della Palace Pictures, che aveva fatto successo distribuendo La casa ed era alla ricerca di un altro film da fare con un budget inferiore al milione e che replicasse il successo della Casa. Sono stato molto fortunato che la sceneggiatura sia arrivata nelle sue mani.

E per quanto riguarda la musica? Hai scelto Simon Boswell per la soundtrack di Deliria?

Sì, ma che rimanga tra noi, è stato anche perché non ci siamo potuti permettere i Goblin. Non l’ho mai detto a Simon per paura di ferirlo (ride). La prima scelta sono stati i Goblin, ovvio, ma c’era il problema che in quel periodo era difficile identificarli perché continuavano a sciogliersi. Così abbiamo optato per Simon che inoltre viveva a Londra.

Hardware e Dust Devil oggi sono di culto anche per merito delle loro colonne sonore.

Sì, ha fatto un ottimo lavoro. Il suo colpo di genio per Hardware è stato la slide guitar che in seguito è stata utilizzata anche a sproposito in molti altri film di fantascienza. C’è perfino in L’ombra dello scorpione di Stephen King. Con Dust Devil, invece, ha lavorato diversamente perché il film era diverso. Dust Devil era un on the road ambientato in Africa, con lo sciamano che era una proiezione del guidatore. è l’incontro del western, del poliziesco investigativo, dell’horror, del road movie e del romance e proprio per questo andirivieni tra i generi la soundtrack è più morriconiana.

Prima di parlare di Dust Devil, come ha reagito il pubblico a Hardware? Tra l’altro non so se era per Hardware o Dust Devil, ma la prima volta che ti ho visto è stato al Dylan Dog Horror Fest.

Quella è stata la migliore proiezione di Dust Devil in assoluto. Me la ricordo ancora, si tenne al Palatrussardi davanti a 7.000 persone. Una cosa assurda. Non ho mai più avuto un pubblico così numeroso, anche se non sapevano chi fossi. Quando ancora facevo i video musicali mi era venuta l’idea di indossare un cappello perché sapevo che se anche la gente non si fosse ricordata il mio nome o la mia faccia si sarebbero ricordati del mio cappello. Quando sono salito sul palco non sapevano chi fossi, ma era importante. Era sufficiente che identificassero il regista del film dell’uomo col pastrano e l’armonica come quel pazzo col cappello. E la proiezione è stata grandiosa.

Ha avuto successo Hardware al cinema? Ricordo che se ne parlò molto.

Hardware è andato ben oltre le nostre aspettative. Francamente pensavo che sarebbe stato distribuito straight to video. E questa in effetti era l’intenzione iniziale dei distributori. Era un film realizzato con 500mila dollari, per cui un film molto piccolo. E invece è andato molto meglio di quel che credevamo. Quanto esattamente non l’ho mai saputo perché la Miramax, che deteneva i diritti a livello internazionale, non ce l’ha mai comunicato e non ci ha mai pagato le royalties che ci spettavano.

Era difficile fare un calcolo preciso degli introiti a livello mondiale, ma considerato il costo effettivo del film ha fatto guadagnare molto alla Miramax e alle altre società coinvolte. Negli Stati Uniti alla sua prima uscita è stato distribuito in 700 sale per cui è circolato parecchio. Io per fare il film sono stato pagato 12mila dollari che per l’epoca mi sembrava un buon accordo. Mai e poi mai avrei pensato che avrebbe avuto una vita così lunga.

Cosa ti ha detto Dario quando gli hai fatto vedere il film?

Ero molto nervoso perché lui e Claudio sono stati in silenzio per tutta la proiezione. Avevo il terrore di aver fatto uno sbaglio enorme. Inoltre non capivano le battute che per me sono fondamentali per capire lo spirito del film. Sia in Hardware che in Dust Devil i dialoghi sono ridicoli e le situazioni molto bizzarre. Per cui mi aspettavo che il pubblico ridesse. Soprattutto in Hardware ci sono delle battute dove mi immaginavo la gente alzarsi e mandare a fare in culo i personaggi. Nel caso di Dario e Claudio non c’è stata alcuna reazione, nemmeno un sorriso. Poi la luce si è accesa, Dario è venuto da me e mi ha detto: «Il rosso, l’arancione, i colori, il modo in cui la cinepresa si alza e si abbassa, è psicologico, mi piace.» L’importante, comunque, è che gli sia piaciuto. Quando il film è uscito in Italia ha accettato di associare il suo nome al film: «Dario Argento presenta». Mi ha reso molto orgoglioso.

Insomma, il successo di Hardware ti ha portato a fare Dust Devil, giusto?

Più o meno sì. In realtà Dust Devil sarebbe dovuto essere il mio primo film. L’avevo scritto in Sudafrica da studente. Con degli amici abbiamo ragionato su che film avremmo potuto girare senza soldi. Così abbiamo pensato a una storia. Era quella di una ragazza che attraversa il deserto in macchina e dà un passaggio a un assassino. A quel punto avremmo avuto solo due personaggi in una macchina. Questa era l’idea più semplice ed economica a cui arrivammo. E di fatto abbiamo anche iniziato a girarlo con una 16mm. Per cui esiste una versione in 16mm di Dust Devil come esiste quella di 40 minuti in super8 di Hardware. Quando poi ho avuto l’opportunità di fare il lungo ho aggiunto tutta una serie di sub plot e di personaggi, come quello del poliziotto, e in questo modo è diventato un film più grosso. Ma all’epoca è stata l’idea più semplice e stupida che ci fosse venuta in mente.

Non avevo intenzione di rifarlo, ma dopo il successo di Hardware sono accadute delle cose. Uno dei produttori si è rivelato una persona molto disonesta, rubando il materiale di un documentario che avevo girato in Afghanistan prima di fare Hardware. Ma non avevo i soldi per montarlo. Ero riuscito a riversare il materiale per fare un telecinema, ma dovevo fare Hardware prima di riuscire a completarlo. Durante la lavorazione di Hardware, questo produttori l’ha saputo, senza dire nulla è andato al laboratorio e ha rubato tutti i negativi. Alla fine di Hardware è venuto da me e mi ha detto che se avessi voluto rivedere i miei negativi avrei dovuto cedergli i diritti di una mia sceneggiatura. C’era quella di Dust Devil che giaceva nel cassetto da dieci, quindici anni e siccome non me ne fregava nulla glieli ho firmati in cambio dei miei negativi. Erano gli anni del successo del Silenzio degli innocenti, proprio come prima era stato per Terminator e Alien così questo tizio deve aver pensato che fosse sufficiente la presenza del serial killer per renderlo commerciale. Ma non lo era. Era un progetto molto particolare ambientato in una location esotica.

Hai trovato differenze tra il set di Hardware e quello di Dust Devil?

Alla fine è stato più faticoso fare Dust Devil. Con Hardware è vero, avevamo pochi soldi a disposizione, ma era tutto ambientato in un’unica location. Con Dust Devil, invece, era importante per me fare un film che fosse del tutto diverso dal precedente. Una totale reazione ad Hardware. Se Hardware era montato in maniera vorticosa ed è ambientato in una location chiusa e buia, Dust Devil doveva avere inquadrature lunghe e cadenzate e svolgersi all’esterno sotto una luce accecante. Anche la musica è diversa. Hardware era solo rock’n’roll, Dust Devil, invece, ha diversi stili musicali: c’è un po’ di Morricone, di country, di western, insomma una gamma di colori completamente diversa. Il vero problema con Dust Devil è stata la società di produzione che è andata in bancarotta durante la lavorazione. Noi non c’entravamo nulla. La Palace aveva i diritti di Le iene, I protagonisti, Casa Howard e La moglie del soldato e la Polygram, che era una grande potenza, ha preso di mira il suo catalogo. Ha approfittato di alcuni buchi finanziari della Palace, ha proceduto per vie legali e ha preso il controllo della società rilevandola, e quindi anche sul film. La società di produzione si è volatilizzata e così anche buona parte del budget che era destinato a noi. Era iniziato come un grande film, ma ora della fine delle riprese eravamo rimasti in otto membri della troupe, costretti a eliminare scene che non potevamo girare.

Ma la Polygram sarebbe diventata la nuova proprietaria del film, no?

Il punto è che non lo volevano, non gli interessava minimamente. All’inizio ci chiesero di chiudere baracca e riprendere i soldi dall’assicurazione. Non avevano interesse ad andare avanti e non lo guardarono nemmeno. Anche se siamo riusciti ad arrivare alla fine della produzione, abbiamo dovuto rinunciare a molte scene o a cambiarle in corso d’opera e tutta l’azione è scomparsa. Ogni volta che dovevamo fare una scena d’azione, non c’erano i soldi e dovevamo trasformarla in una scena di dialogo. Non avevamo nemmeno le macchine che funzionavano. Pensa cosa vuol dire fare un road movie con tutte le macchine a disposizione rotte. Non avevamo nemmeno il camion per le riprese, per cui non potevamo girare i dialoghi direttamente dentro le macchine e i personaggi dovevano stare in piedi accanto alla macchina e dire le loro battute. Eravamo noi a spingere le auto verso la macchina da presa. Comunque l’importante è che alla fine siamo riusciti a portare a casa abbastanza materiale per montare il film. I veri problemi sono cominciati dopo. Tornati a Londra i negativi se li era tenuti il laboratorio perché non era ancora stato pagato. L’audio, invece, era in mano allo studio di registrazione, e il resto del film custodito da diversi altri individui. Siccome la società di produzione era finita in bancarotta, non c’era nessuno che potesse pagare per la postproduzione, e per quattro anni di Dust Devil si persero le tracce.

Era un disastro, ma bisognava pur andare avanti. Circa tre anni dopo sono andato al cinema a vedere un triple bill con C’era una volta il west, Pat Garrett e Billy the Kid e Il mucchio selvaggio. Mi facevo di LSD in quel periodo così sono uscito dalla proiezione del Mucchio selvaggio furioso, ho attraversato la strada, sono entrato in una cabina telefonica e ho iniziato a chiamare le diverse società pretendendo che mi ridessero il film. Ho pensato che anche se era impossibile tenere testa alla Polygram e alla Miramax e a tutta quella gente da solo, avrei fatto come il personaggio di un film western quando si batte contro un destino che sembra soverchiarlo. E così ho iniziato questa battaglia legale che piano piano nel tempo ha funzionato. Sono andato dal finanziatore originale del film che era Channel 4 e gli ho detto che se volevano vedere indietro i soldi che avevano investito dovevano perlomeno autorizzarmi ad agire per conto loro per recuperare il materiale originale. Per fortuna ce l’abbiamo fatta, e abbiamo recuperato il negativo e l’audio. È stato un po’ come in Tucker di Francis Ford Coppola, dovevamo riuscire a fare una copia campione combinata in modo da riuscire a tagliare il negativo e così generare una copia del film. Senza quella copia combinata il film oggi non esisterebbe. Solo in questo modo avremmo potuto fare il telecinema e fare delle copie. Esattamente come in Tucker per fare il prototipo della macchina. Ce l’abbiamo fatta anche grazie all’intervento di Mark Karmode, il critico, che aveva visto il materiale del film e aveva scritto una serie di articoli in modo da sensibilizzare la gente e far sì che ci fosse interesse per il film.

Alla fine, però, è uscito in tutto il mondo, anche in Italia con il titolo Demoniaca.

Sì ma quella è una versione del tutto diversa perché anche la Miramax, dal canto suo, aveva cercato di riavere indietro i soldi. Così in America, quando il film è andato distrutto, hanno generato un internegativo, ovvero un nuovo negativo a partire dalla copia montaggio che non proveniva dai giornalieri ma dal composit del film che avevamo fatto a suo tempo e da cui sono riusciti a ricavare un altro negativo. All’insaputa di tutti hanno chiamato un altro montatore per finire il lavoro. Dura mezz’ora in meno della mia versione ed è praticamente incomprensibile. Tutta colpa della Miramax che non mi ha consultato. Credo che sia stato lo stesso tizio che sempre per la Miramax ha fatto Hellraiser 2, Tony Randel. È lui che lo ha assemblato per fare un favore alla Miramax facendo però all’immagine del film un bel danno perché non aveva alcun senso, non c’era più la storia. Ci sono voluti anni prima di riuscire a fare uscire la versione originale e distruggere l’altra versione bastarda.

E dopo? Hai iniziato a scrivere sceneggiature come quella dell’Isola perduta dove so che ci sono stati un bel po’ di problemi pure lì.

Sì, enormi (ride). Vedi, per tutta la mia vita sono sempre stato in fuga da qualcosa, è la verità. Sono davvero pochi i progetti dove sono stato coinvolto perché lo volevo. Tutto il resto è arrivato accidentalmente o contro la mia volontà. Con Dust Devil avevo speso tutti i soldi che avevo per fare la post-produzione e poi la copia combinata del film e avevo perfino debiti da pagare. Insomma, alla fine avevo un debito di 30.000 dollari o giù di lì. Non avevo carta di credito, una casa, vivevo in una stanza per gli ospiti negli uffici del cinema Scala. Ho cercato di vendere qualche mio lavoro, tra cui la sceneggiatura dell’Isola perduta su cui stavo lavorando da parecchio tempo. Sono un fan del romanzo di H.G. Wells, e quando da ragazzo ho visto la versione della AIP con Michael York e Burt Lancaster forse per la prima volta ho pensato di farmi risarcire i soldi del biglietto. Il film mi ha deluso a tal punto che mi son detto: «Maledizione, posso fare molto meglio di questo». è da qui che è nata l’idea di provare a fare una versione più decente del Dr. Moreau, perché la storia meritava un film migliore. La sceneggiatura è evoluta nel corso degli anni. Il problema era che dopo Dust Devil avevo un bisogno disperato di vendere un progetto. Sono stato fortunato a trovare in America il produttore Edward R. Pressman che ha voluto farsene carico. Grazie a lui mi sono salvato finanziariamente e sono stato in grado di sistemare la situazione con Dust Devil. Sapevo però anche che era una situazione molto rischiosa fare un film così grande arrivando da un disastro commerciale come Dust Devil.

Era possibile chiudere i conti con quel film a patto che si arrivasse da un grande successo come per esempio era capitato a Coppola. Lui è riuscito a sopravvivere ad Apocalypse Now solo perché arrivava dal successo dei primi due Padrino. In più aveva i soldi ed era il primo azionista del film. Io invece ero stato costretto addirittura a vendere i diritti della sceneggiatura e questo era un chiaro segno di un disastro annunciato. Però non avevo scelta. Una volta vendutagli la sceneggiatura, Pressman ha avuto la brillante idea di darla a Marlon Brando, sapendo che Brando avrebbe accettato di fare qualsiasi film se gli si fosse dato un milione di dollari extra sul suo conto in banca. Non c’era neanche bisogno che lo leggesse. Era sufficiente il nome di Brando per attirare l’interesse di tutti gli altri investitori sul progetto. In quel periodo avrei potuto avere anche Bruce Willis e James Woods. Non appena Willis diede la sua disponibilità, la New Line volle farne parte. Iniziò a diventare un film gigantesco con il budget che cresceva a vista d’occhio. E più alto diventava il budget meno chance avevo io di rimanere legato al progetto.

La sceneggiatura venne cambiata?

Non c’è più niente di mio nel film che è venuto fuori. L’unica cosa che hanno tenuto è la location, la casa che avevamo progettato e il make up, ma neanche tutto, giusto qualche elemento, perché poi hanno effettuato dei rilevanti cambiamenti nell’aspetto delle creature e nel modo in cui erano vestite. Il cimitero degli aeroplani nel mezzo dell’isola è stato tenuto dallo script originale. Anche il cast in parte è rimasto quello a cui avevo pensato io. Marlon Brando, Fairuza Balk, Ron Perlman. Val Kilmer, invece, ha preso il posto di James Woods e David Thewlis quello di Rob Morrow. Fairuza è rimasta la donna gatto, mentre Ron Perlman è il “Sayer of the Law”, ma con un make up differente. Non c’è un solo dialogo che rispecchi i miei e nemmeno le situazioni sono le stesse. La storia originale iniziava in seguito a un conflitto nucleare con un gruppo di operatori dell’ONU che tentano di scappare da un’ipotetica guerra nucleare tra India e Pakistan. Il loro aereo andava in avaria a causa delle forze elettromagnetiche che li facevano precipitare in mezzo all’oceano dove venivano attaccati dagli squali. Solo uno di loro si salvava trovando riparo sull’isola. Anche i toni erano molto diversi e cupi specialmente nel finale, dove lasciavo intendere che forse il mondo circostante non esisteva più e che il genere umano si era estinto per lasciare posto alle creature, unico residuo della nostra cultura e della nostra civiltà. Anche Brando avrebbe avuto molto più spazio, con più dialoghi.

Sì, sembra proprio un altro film…

Ti dirò di più, secondo me hanno fatto un remake del film della AIP. Se ci fai caso la storia è molto simile a quella con Michael York e Burt Lancaster. Ho parlato con un tizio che ha fatto parte della troupe su entrambi i film, quello di Don Taylor e quello di John Frankenheimer. Mi ha detto che l’unica differenza tra i due film era che in quello di Don Taylor erano tutti ubriachi mentre in quello di John Frankenheimer erano tutti strafatti di droghe, ma l’esperienza in fondo era la stessa.

Con The Theatre Bizarre, invece, sei riuscito ad avere pieno controllo, giusto?

The Theatre Bizarre è stata una piacevole sorpresa, arrivata proprio quando avevo deciso di allontanarmi dal cinema per un po’. Vivevo in montagna e mi sono reso conto che il posto in cui stavo era infestato. C’erano stati episodi di stregoneria e l’atmosfera generale era molto lovecraftiana. Così ho provato a scrivere un cortometraggio, un piccolo film da poter girare in quei luoghi in totale economia, ma con uno script abbastanza folle al punto poi da finire nell’antologia di The Theatre Bizarre. E così è nato Mother of Toads. Lo script è stato dettato da una tavola stregata. Hai presente quelle tavole per comunicare con gli spiriti? Ne abbiamo comprata una e la prima frase che è venuta fuori è stata: “Mother of Toads”. Dopodiché la tavola stregata ci ha dato gli input per tutta la storia. Ha iniziato col dirci che dovevamo iniziare con due americani in un mercatino che comprano degli orecchini e da lì ci è stata dettata tutta la storia. La sceneggiatura era di una ventina di pagine e volevamo realizzarlo come un filmino fatto in casa. Siccome però David Gregory stava mettendo insieme l’antologia di The Theatre Bizarre, gli abbiamo fatto leggere lo script, gli è piaciuto e ci ha dato 20mila dollari e cinque giorni di riprese. Era praticamente lo stesso budget con cui realizzavo i videoclip negli anni Ottanta. Per tre dei cinque giorni ha piovuto a dirotto.

Parliamo di Catriona MacColl che ha fatto molti film con Lucio Fulci.

Oh, adoro Lucio Fulci, come Mario Bava. Era giunto il momento di omaggiare Fulci. Anche in Dust Devil ci sono dei riferimenti espliciti a Fulci, quando la ragazza versa lacrime di sangue. Ma Mother of Toads è un omaggio dichiarato. Altro particolare curioso, di cui parlo anche in L’Autre Monde, il mio ultimo film: vicino a dove abito adesso vive uno stregone locale, che nel documentario è uno dei personaggi principali. Lo fa da 30 anni ed è un uomo molto strano. Ho iniziato a farmi un’idea piuttosto chiara sul suo conto quando ho notato le copertine dei dvd di Lucio Fulci che pendevano dagli alberi nella campagna vicino a casa sua. Ognuna era stata modificata con dei piccoli disegni e simboli magici. Ed è stato lo stregone a dirmi che una delle porte dell’inferno si trova proprio lì e che le cover dei film di Fulci servono per mettere in guardia la gente che vive nei paraggi della presenza di questo accesso infernale. Mi ha totalmente conquistato. Abbiamo visto tutte queste immagini di Catriona MacColl e Lucio Fulci con dei strani simboli occulti disegnati tutt’intorno alla sua casa e sugli alberi. Per cui non solo abbiamo deciso di farci un film ma abbiamo pensato di chiamare pure Catriona per farglielo vedere.

Parlaci di L’Autre Monde e perché proprio un documentario?

È stato un incidente. Tutto quello che faccio avviene per caso. Nessuno dei film che ho fatto l’ho pianificato. Quelli che vorrei fare non riesco a farli, mentre per qualche ragione assurda mi capita di fare cose che non pensavo di fare. Catriona MacColl era fantastica. Sul set era stata bravissima al punto da farmi sperare di riuscire a fare un film più lungo insieme a lei. Mi spiaceva che il suo personaggio avesse solo due scene. Mi ha veramente colpito ed è una persona magnifica da avere intorno. È un peccato che non sia stata usata di più dal cinema. Non ha ancora trovato il ruolo della sua vita. Mi piacerebbe inserirla in un film medievale nel ruolo di una regina. Ha un grande potere. In Mother of Toads ha un ruolo piccolissimo, ma non appena apre bocca avverti subito l’elettricità che scaturisce intorno a lei. Tutti quelli della troupe si sono resi conto essere davanti a una star. Mi ha fatto capire come sarebbe stato fare un film con Boris Karloff o una delle grandi star dell’horror.

Ero molto eccitato. Mentre giravamo Mother of Toads il produttore e Karim Hussein, il direttore della fotografia, hanno iniziato a notare cose intorno alla location tra cui delle persone. Il momento in cui il produttore ha incontrato lo stregone e i suoi amici e ha iniziato a parlarci, lo stregone, che era molto basso, ha iniziato a stressarci dicendo che voleva essere vestito anche lui ed essere truccato. Era molto intelligente, ma anche molto strano, sembrava arrivare da un altro pianeta. Stando al produttore avrei dovuto fare un film su di loro perché erano veramente fuori di testa. Da qui l’idea di fare il documentario, qualcosa che non è finzione e che mostri la vera vita di queste persone. Karim, il DOP, a quel tempo aveva problemi con la sua ragazza che lo aveva cacciato di casa. Siccome aveva una bella cinepresa e non sapeva dove stare è venuto da me. Con l’equipaggiamento a disposizione abbiamo iniziato a fare delle riprese. Siccome avevo per le mani una storia di fantasmi molto convincente ho raccontato la mia storia davanti all’obbiettivo. È l’inizio del documentario. Fabrice Lambot, un produttore di Parigi, ha visto questo materiale e ha deciso di darci i soldi necessari per continuare a girare e farci un film.

Per cui non l’avevi preventivato.

Esatto. È il documentario che mi ha voluto. Ora ho capito anche che è il documento di questo strano posto e della gente che vi abita. Servirà da testimonianza dopo la loro morte. Un po’ come un messaggio nella bottiglia. Il pubblico può prendere o lasciare. Non mi aspetto di essere creduto. Molti lo vedono come uno scherzo o una barzelletta tirata per le lunghe dove questa gente recita, ma non è una burla, è tutto vero.

Come ha reagito la gente in generale?

In modo molto interessante. Ho letto recensioni entusiastiche come non ne ho mai avute. Perfino sull’Hollywood Reporter, che mi ha emozionato. Una volta tanto non ci sono uccisioni, violenza o sesso, è quasi un film per bambini. Forse è proprio per questo che è stato accolto con maggior calore del solito. La reazione comunque è o di completo rifiuto oppure di entusiasmo totale. Dopo anni in cui non ho fatto altro che parlare di violenza, droghe e sesso, compresi i miei video musicali, ho fatto un film che è privo di tutti questi elementi e ora ben tre persone della mia famiglia non vogliono più parlarmi (ride). Addirittura uno dei miei migliori amici pensa che abbia avuto un serio problema con le droghe e vuole aiutarmi. Invece sto benissimo! (ride). Comunque è un film strano, anche perché lo abbiamo decostruito in un modo che disorienta.

Quindi ti intendi di esoterismo.

È tutta la vita che mi interesso al soprannaturale in generale. Ma è stato solo pochi anni fa, dopo aver visto certe cose, che ho avuto la dimostrazione che il soprannaturale esiste davvero. Forse la vera colpa è stata proprio di Dario con Suspiria e Inferno. Ma ora sono in una posizione dove per forza di cose devo crederci. Sono stato scettico a lungo, anche se sempre interessato, ma ad un certo punto della mia vita, di cui parlo anche nel film, ho capito che c’è del vero e ho iniziato a credere nell’esistenza del soprannaturale. Ha cambiato la mia vita. Penso che se arrivi a un punto per cui sei convinto che queste cose esistono e hai delle prove, sei in dovere di dire qualcosa, altrimenti si finisce col dare credito alle falsità e una volta che sei nella tomba è troppo tardi.

E attraverso un documentario è meglio che attraverso il film di finzione, no?

Volevo fare una confessione e dire: io ho visto questo, voi credete pure quello che volete, ma io cazzo se l’ho visto (ride). E devo accettarlo, non posso fuggire, devo crederci senza preconcetti. E quindi ho ritenuto opportuno documentare ufficialmente questi eventi. Comunque siccome L’Autre Monde è la cosa più morbida che ho fatto e tratta i suoi personaggi con un certo affetto che non ho mai manifestato prima, il prossimo film che farò voglio che sia il film più terrificante della mia carriera. L’ultima volta che ho provato veramente a fare un horror è stato con Hardware. Dust Devil è un film completamente diverso. Invece ora sento il bisogno di tornare a fare qualcosa di veramente spaventoso. Al momento sto portando avanti due progetti e incrociando le dita, e con il supporto del Dio del cinema indipendente, spero di riuscire a fare l’horror che ho sempre sognato di fare coinvolgendo Karim Hussein, Simon Boswell e tutte le persone con cui sto lavorando in questo momento.