Intervista a Renny Harlin

Nato in Finlandia, prima di debuttare alla regia è stato buyer per una società di distribuzione. (Neuchatel, 2013)
Featured Image

Grazie a un piccolo film d’azione è giunto a Hollywood dove ha scoperto Viggo Mortensen, si è imposto con Nightmare 4 e ha firmato successi al fianco di Bruce Willis e Sylvester Stallone. Oggi è tornato con un horror e un peplum prodotto da Lucisano: Hercules.

Iniziamo da te. Pur venendo dalla Finlandia, sei diventato un regista di Hollywood.

La mia carriera è stata abbastanza avventurosa. Volevo fare film fin da quando ero bambino, ma in Finlandia non era facile. Facevano pochissimi film, tutti finanziati dal governo e quasi sempre d’autore. Ho scritto diverse sceneggiature, ho frequentato la scuola di cinema, ma è stata solo una perdita di tempo. Però, nel frattempo, credo di aver visto qualsiasi film immaginabile.

Quando eri più giovane, che gusti avevi?

Direi che il mio primo amore è stato il thriller, anche perché mia madre è sempre stata una patita di cinema e adorava Hitchcock. Posso dire di essere cresciuto a pane e Hitchcock. A 8 anni, mi ha portato a vedere al cinema Rosemary’s Baby e quel film ha avuto un impatto incredibile su di me. Mi piacevano anche i film d’azione e i western, specialmente quelli di John Ford. Da quelli sono passato ad amare registi come Don Siegel o Sam Peckinpah. Mi sono sempre piaciuti i grandi film, pieni d’azione e visivamente ricchi; ed erano quelli che desideravo fare da regista.

Cosa che, a quanto ho capito, era impossibile fare in Finlandia.

Certo, visto cha da noi al massimo si realizzavano film con due personaggi che parlano dei loro problemi in una stanza. Quindi, ho abbandonato la scuola di cinema e ho iniziato a realizzare documentari o video industriali. Da quelli poi sono passato agli spot pubblicitari (per i quali ho vinto qualche premio) e alla tv. Tutto questo avveniva quando avevo poco più di vent’anni. Comunque la mia idea era sempre quella di lavorare a Hollywood, ma non avevo ancora credibilità.

Così ho scritto una sceneggiatura, ambientata in Finlandia, ma in inglese e che poteva essere realizzata con attori americani. Ho investito tutti i miei risparmi, mi sono fatto prestare dei soldi per realizzare un promo di questo film e l’ho portato a Hollywood, anche se lì non conoscevo quasi nessuno. Ai tempi della scuola di cinema, però, avevo anche un altro lavoro. Facevo il buyer per una piccola casa di distribuzione. All’epoca di distribuzione ne sapevo poco o nulla, ma per me era un sogno poter andare a Cannes o all’American Film Market (la prima volta è stata nel 1982) ed essere pagato per vedere e scegliere film. Questo mi è stato utile per capire che per vendere un film e finanziarlo a volte bastava solo un poster. E così ho fatto per il mio primo film. Un poster e un promo sono stati sufficienti per mettere su una piccola casa di produzione e ottenere i finanziamenti per realizzarlo. Il film è uscito nelle sale ed è stato venduto anche nei mercati esteri.

Stiamo parlando di Born American, giusto?

Esatto!

È vero che nel film ci doveva essere anche Chuck Norris?

Sì. Lui era interessato, abbiamo fatto un accordo e gli abbiamo pure dato un anticipo di 350.000 dollari. Poi tutto è saltato, ma lui si è tenuto i soldi. Cavolo, per me che avevo 21 anni, 350.000 dollari erano una cifra enorme….

Com’è possibile che sia successa una cosa simile?

Principalmente la colpa è stata di uno dei co-produttori americani del film, che ci aveva promesso di trovare metà del budget, ma non era una persona seria. Per farla breve, noi eravamo già pronti a girare in Finlandia, i set erano già stati allestiti e aspettavamo che arrivasse Chuck Norris. Poi ci siamo accorti che questo co-produttore non aveva racimolato i soldi che aveva promesso e quindi non aveva nemmeno pagato il resto del cachet per Chuck Norris. Poi Chuck mi chiamò e mi disse che gli dispiaceva per quanto era accaduto ma non era più disponibile perché doveva fare un altro film della serie Missing in Action. In ogni caso, la parte del protagonista è andata a suo figlio Mike… quindi alla fine almeno un Norris lo abbiamo avuto nel film.

Beh, è una storia fantastica. Comunque, il film com’è andato in Finlandia?

In Finlandia ne è stata proibita la visione. Non so se ricordi la storia, ma il film parla di tre ragazzi americani che vanno in Finlandia in vacanza. Per divertirsi, attraversano il confine con la Russia e i Russi li imprigionano e li sottopongono a ogni tipo di torture e umiliazioni. Tieni presente che nel 1986 non era ancora crollata la Cortina di Ferro e che la Finlandia confina con la Russia. Quindi, quando gli organi di censura lo hanno visionato lo hanno subito messo al bando per motivi politici; una cosa che in Finlandia non accadeva dagli anni ‘30.

Devo dire che questo ha giovato al film, perché il caso è finito sulle prime pagine di quotidiani come il New York Times o il Los Angeles Times. Ancora mi ricordo uno dei titoli «Nato in Finlandia, ma messo al bando nella sua nazione». Insomma, quel filmetto divenne un caso nazionale e il governo finlandese dovette ammettere che la ragione per il bando era nata dalla preoccupazione che il regime russo reagisse male e che ci fossero ripercussioni in Finlandia. Il film ha venduto bene in tutti i Paesi del mondo in cui è uscito. Qualche anno fa, ne è stata permessa la visione anche in Finlandia, dove è andato piuttosto bene.

Però il film è andato molto bene.

Sì, ma noi non ci abbiamo guadagnato neanche un dollaro. Io e il mio amico produttore abbiamo investito mezzo milione di dollari e la compagnia di produzione ci ha messo il rimanente mezzo milione. Però non sapevamo nulla di business e ingenuamente pensavamo che se due parti fanno un investimento a metà, i profitti verranno divisi a metà. Quando io e il mio amico siamo andati a firmare il contratto con i co-produttori hollywoodiani, ci siamo trovati di fronte a una serie infinita di pagine e pagine di contratti da firmare e gli americani ci hanno chiesto chi fosse il nostro avvocato. Noi siamo rimasti interdetti perché non lo avevamo. In Finlandia per un contratto di vendita di una casa basta un accordo tra due persone, senza avvocati e intermediari.

Ci siamo limitati a chiedere agli americani se avessimo diviso i profitti a metà. Ci hanno detto di sì e abbiamo firmato, non sapendo che i contratti americani sono pieni di clausole in cui si dice che il profitto per le parti è generato dopo il break-even, al netto dei diritti ancillari del residuo mondiale etc., etc. Per farla breve il film avrebbe dovuto incassare 6 miliardi di dollari perché noi ne vedessimo una parte e quindi non ci siamo messi in tasca nulla.

Comunque, questo ti ha dato l’opportunità di continuare la tua carriera da regista in America.

Sì. Quel film è stato il biglietto d’ingresso a Hollywood perché il film è uscito in migliaia di sale e alla fine ha incassato più di 7 milioni di dollari. Avevo qualcosa da far vedere ai produttori e già un minimo di credibilità commerciale. Non è stato comunque facile, perché non avevo più un soldo e neanche una carta di credito. Pensa che per un anno ho vissuto nel garage di un amico. Comunque, dopo circa un anno e mezzo sono riuscito a girare Prison. Ma anche lì, problemi a non finire, perché la società di produzione fallì poco dopo le riprese e il film non uscì in sala.

Però, almeno, avevo due film già realizzati da far vedere. Ho saputo che la New Line stava per produrre Nightmare 4 e mi sono presentato da loro con i miei film. Non è stato facile perché non avevano intenzione di affidare un franchise così importante e redditizio a un finlandese con poca esperienza. Io ho insistito e in mio soccorso è arrivato il proverbiale colpo di fortuna: lo sciopero degli sceneggiatori del 1987. Alla New Line avevano l’acqua alla gola perché non avevano né un regista né una sceneggiatura, ma la data d’uscita del film era già stata annunciata. Sono tornato da loro e gli ho mostrato i miei storyboard di alcune scene d’azione ambientate negli incubi e gli ho detto “le scene horror le ho già pre-visualizzate; basta metterci qualche dialogo e il copione è pronto”. Alla fine si sono arresi e hanno preso questo pazzo (così mi definivano) per dirigerlo.

Vorrei parlare un attimo di Prison, che è appena stato ristampato in un’ottima edizione blu-ray dalla Shout Factory. Cosa ti ricordi di quel film?

Per me fu un film abbastanza importante, perché era il mio primo vero film americano, nonostante il budget modesto (poco più di un milione di dollari). Ed era prodotto da Irwin Yablans, quello che di fatto lanciò la carriera di John Carpenter. Lui stesso, dopo aver visto Born American, mi disse che sarei diventato il nuovo John Carpenter. Che potevo dire se non “wow, fantastico!”? Abbiamo avuto un po’ di problemi soprattutto per reperire i finanziamenti, ma superato quell’ostacolo abbiamo iniziato a girarlo nel Penitenziario Statale del Wyoming. La realizzazione è stata abbastanza terrificante, perché in Finlandia ero abituato a lavorare con una troupe composta da 15 persone, mentre in America dovevo coordinare tra le 60 e le 100 persone.

Francamente, non avevo idea di chi facesse cosa e non capivo nemmeno i termini tecnici che usavano. Ti giuro, ero paralizzato dalla paura e pensavo che sarei stato licenziato da un giorno all’altro. Mi sentivo come uno che avesse ottenuto quel lavoro con mille peripezie e bugie e che alla prova dei fatti non avesse la minima idea di cosa stesse facendo. La notte non dormivo, non riuscivo a mangiare, prima di recarmi sul set scoppiavo a piangere e avevo paura di tutto e di tutti: degli attori, della troupe e dei produttori. Avevo 26 anni e la certezza che mi avrebbero licenziato. Poi, in seguito ho fatto film molto più elaborati e complessi, ma quello per me è stato in assoluto il più difficile da realizzare. Alla fine è venuto fuori un film discreto, ma all’epoca mi dicevo “se sei sopravvissuto a questo, puoi sopravvivere a tutto”. Ogni giorno mi chiedevo cosa facessero queste persone, cosa fosse un key grip o un gaffer.

In ogni caso, il film ha riscosso un buon successo, specie nei festival di genere in cui è stato presentato. Quindi non capisco perché hai avuto tante difficoltà a farti ingaggiare dalla New Line per Nightmare 4.

Il problema principale era che, al di là della qualità o che il film fosse piaciuto, in realtà non era mai uscito nei cinema, perché la Empire, che lo aveva prodotto, fallì prima che potesse uscire. La Empire fu poi rilevata dalla New World e anche quella fallì subito dopo. Quindi Prison uscì solo in due cinema a New York. Il classico film che sparisce senza lasciare traccia. Poi in seguito è stato riscoperto ed è diventato un cult movie. Quando lo mostrai alla New Line per ottenere di dirigere Nightmare 4, mi dissero che era fatto bene che aveva ottimi effetti speciali per il budget che aveva, ma ero troppo inesperto e poco conosciuto per gestire un franchise prestigioso come Nightmare.

Specie dopo che Nightmare 3 aveva avuto un ottimo successo al box office. Però vorrei chiederti se la tua scelta di voler dirigere Nightmare 4 fosse condizionata dall’opportunità in sé, oppure del fatto che eri appassionato di horror.

A dire il vero, più che dall’horror in generale ero attratto dall’idea di fare qualcosa di visivamente stimolante, che suscitasse forti reazioni nel pubblico. Quindi il fatto che abbia realizzato due (o tre se contiamo Born American) horror di fila è stata più una coincidenza. Io volevo fare film con un forte impatto visivo, sia che fossero horror o film d’azione.

Con Nightmare 4 ci sei riuscito in pieno, specialmente nelle scene oniriche, molto surrealiste.

A dire la verità per me immaginare quelle scene è stato facile perché vi ho trasposto gli incubi che facevo fin da quando ero bambino e mia madre mi portava a vedere i primi film horror. I miei incubi erano surreali e terrificanti, proprio come quelli che si vedono nel film. Credo che il mio principale apporto alla serie di Nightmare sia stato quello di far capire ai produttori che, dopo tre film, il personaggio di Freddy Krueger ormai non faceva più paura quindi andava re-inventata la struttura visiva dei suoi film. Diciamo che Freddy Krueger era diventato una specie di James Bond dell’horror che non faceva più paura a nessuno. Certo, i personaggi secondari erano importanti, ma la star era Freddy. Così ho insistito perché questa formula fosse arricchita da una buona dose di humour e situazioni visive più stimolanti. Credo che questa mia intuizione sia stata giusta, perché ha rivoluzionato la serie e Nightmare 4 è stato quello che ha incassato di più.

Quindi è stato il film che ti ha dato credibilità al box office e credo che abbia segnato un punto di svolta importante nella tua vita.

Assolutamente, però durante le riprese non avevo nemmeno una carta di credito e in America senza carta di credito non puoi fare nulla, nemmeno noleggiare un video. Avevo bisogno di una macchina e i pochi contanti rimasti li ho investiti in un’auto usata. Avevo circa 2.000 dollari e mi sono comprato una MGB del 1971 decappottabile. Per me la decappottabile simboleggiava la California e me la sono goduta per due giorni. Poi ha iniziato a piovere e mi sono accorto che la cappotte non funzionava. Quindi che piovesse o ci fosse il sole andavo sul set con la macchina scoperta. Mentre giravamo Nightmare 4 vivevo in un motel scalcinato da 25 dollari a notte, che pagavo di volta in volta con la diaria della produzione.

Alla fine ho vissuto in quel motel per un anno, circondato da tossici e prostitute e la polizia che doveva intervenire ogni notte. Sul set, gli elettricisti o i falegnami arrivavano con le loro Corvette nuove di zecca e io con la mia bagnarola decappottabile con la cappotte bucata e il motore singhiozzante. Tutti pensavano che fossi un eccentrico, mentre in realtà non avevo un soldo in tasca. Tutto è cambiato quando il film è uscito con un’apertura record, specie per un film indipendente. All’improvviso, nel mio motel scalcinato arrivavano telefonate da persone come Spielberg o altri produttori. Insomma, dalla mattina alla sera ero passato da assoluta nullità senza neppure un agente a una star. Poi mi ricordo che il giorno in cui Nightmare 4 uscì, comprai i quotidiani e li lessi mentre facevo la mia solita colazione da due dollari. Tutte le recensioni erano positive ed esaltavano il lato surrealista del film. Non potevo credere ai miei occhi.

E così alla fine ce l’avevi fatta a entrare all’interno dei grandi studios. E grazie al successo di Nightmare 4, sei passato a Die Hard 2. Com’è stata questa transizione da cineasta indipendente a regista di serie A?

È stato un cambiamento enorme, un sogno che si avverava. Non ti posso descrivere l’emozione della prima volta che ho varcato i cancelli degli studios della Fox, dove avrei avuto un ufficio tutto mio e gli addetti alla sicurezza che mi accoglievano come una star. Però non era tutto rose e fiori, perché fare film all’interno dello studio system è un processo lunghissimo e complicato, con mille contratti da firmare, settimane intere di attesa per un’autorizzazione, mille grane sindacali e telefonate continue. Io venivo dal cinema indipendente, dove si scriveva il film, ci si organizzava e si girava, mentre lì era un processo infinito, ed è la ragione per cui, allora come oggi, i film degli studios sono così costosi da realizzare. Quindi, da un lato c’era il sogno che si avverava e dall’altro lo shock per un sistema produttivo che si muoveva a passi di dinosauro e in cui si sprecavano milioni per niente.

E immagino che questo shock dipedesse anche dal fatto che, contrariamente all’Europa, negli Studios il regista conta fino a un certo punto, perché alla fine è il produttore a comandare e ad avere il final cut sul prodotto.

Certo, e per spiegartelo meglio ti racconto com’è stata tutta la trafila che mi ha portato a dirigere Die Hard 2. Prima sono stato contattato da Walter Hill (che per me era un idolo come regista), che figurava tra i produttori della serie di Alien e mi voleva come regista per Alien³. La sola idea di lavorare per un franchise leggendario come Alien era elettrizzante e così accettai subito. Ho passato il mio primo anno di lavoro alla Fox a sviluppare Alien³, con diversi scrittori. Però poi ci sono state grosse divergenze con i dirigenti, con gli scrittori e con Walter Hill, soprattutto per la direzione che volevo imprimere alla storia. Quello che mi interessava era sapere di più sugli alieni, da dove venivano, esplorare il loro pianeta.

Ma i produttori mi dissero chiaramente che non erano interessati a questa idea. L’altra mia idea, invece, era di far arrivare gli alieni sulla Terra, ma anche quella non piacque. Loro volevano ambientare Alien³ all’interno di un’astronave prigione. Io gli ho detto: “Ma a chi può fregare di un Alien a spasso per i corridoi di una prigione che ammazza i detenuti?”. Insomma, rischiavo di fare un film di cui non mi interessavano né la storia né i personaggi e così, dopo più di un anno di tira e molla, decisi di abbandonare il progetto. I produttori furono ovviamente contrariati, ma gli spiegai che mi ero limitato a essere onesto e non mi riconoscevo in quello che stavano facendo. Per me fu una mossa molto pericolosa perché avevo solo 28 anni e correvo il  rischio che nessuno mi volesse più ingaggiare. Per fortuna, il giorno dopo, sempre all’interno della Fox, mi chiamò Joel Silver offrendomi Le avventure di Ford Farlaine. Era una commedia d’azione con protagonista un detective molto rock‘n’roll. Lo script era molto divertente e dopo un anno passato in mezzo ad alieni e altre mostruosità era una boccata d’aria fresca. Accettai e la lavorazione iniziò subito dopo. Le riprese filarono lisce e l’atmosfera fu molto rilassata. Durante le riprese, Joel Silver si presentò sul set accompagnato da Bruce Willis, che mi voleva conoscere e coinvolgermi in Die Hard 2.

L’incontro andò molto bene e chiesi a Willis quando sarebbero iniziate le riprese. Mi aspettavo che mi dicesse tra sei mesi o un anno, ma mi disse che sarebbero iniziate sei settimane dopo. Panico totale! Però non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione, finii le riprese di Ford Farlaine in due settimane e dopo una settimana ero già al lavoro su Die Hard 2. Abbiamo girato il film nei tempi stabiliti e poi ho dovuto seguire la post-produzione e il montaggio sia di Die Hard 2 che di Ford Farlaine. Alla fine, i due film sono usciti nel 1990 a una settimana di distanza l’uno dall’altro. La lavorazione di Die Hard 2 è stata molto impegnativa per una serie di problemi; il primo era l’ambientazione invernale del film, con neve, ghiaccio e stunt molto elaborati, mentre il secondo era l’idea che Bruce Willis aveva per interpretare il suo personaggio. Lui propendeva per un approccio molto serio, mentre per me l’unicità del personaggio di John Mc Laine era il suo sense of humour e il fatto che non si prendesse troppo sul serio. Su questa questione ero comunque sempre spalleggiato da Joel Silver e abbiamo raggiunto un compromesso: per molte scene abbiamo girato due versioni; una che riflettesse l’idea di Bruce del personaggio e un’altra che riflettesse le mie idee. Poi le avremmo messe a confronto e deciso quali avrebbero funzionato meglio. Alla fine i boss della Fox decisero per la versione più ironica.

Quindi avete girato due versioni per ogni scena?

Non ogni scena, ma quelle in cui poteva esserci un elemento umoristico. Diciamo che è la mia idea di cinema, valida per ogni genere, che sia drammatico, horror o d’azione: Per me il pubblico ha bisogno di momenti di umorismo per alleggerire la tensione.

Immagino che a quel punto tu non avessi più paura di andare sul set come ai tempi di Prison.

Ci puoi scommettere (ride). Dopo aver fatto Die Hard 2, con scene d’azione così complicate, esplosioni, aerei e tempeste di neve, ormai sapevo di poter fare qualsiasi tipo di film senza timore.

Mi puoi parlare di come sono stati i tuoi rapporti con gli attori? Mi riferisco a Viggo Mortensen per Prison, Robert Englund per Nightmare 4 e Bruce Willis per Die hard 2.

Beh, ogni attore è differente, ma sono sempre andato d’accordo con tutti. Come regista sono uno che pretende il massimo, ma sempre in maniera professionale e rispettosa e mi piace discutere con gli attori prima di ogni scena. Di me hanno sempre detto che ero molto preparato e scrupoloso, uno insomma che sa esattamente cosa vuole. Diciamo che questo rispetto reciproco è uno dei motivi per cui sono rimasto amico di tutti gli attori con cui ho lavorato. Certo, poi ognuno di loro ha la sua personalità: magari qualcuno è più introverso e caratterialmente complesso, ma visto che non sono quel tipo di regista che s’incazza per tutto e urla in continuazione, non c’è mai stato alcun problema con in miei attori. Con Bruce Willis siamo diventati molto amici ed è spesso venuto con me in Finlandia.

E con Sylvester Stallone?

Anche con lui siamo diventati amici. Abbiamo fatto due film insieme (Cliffhanger e Driven) e tuttora siamo grandi amici. Diversi anni fa, Stallone mi telefona e mi chiede cosa avessi in programma per il Giorno del Ringraziamento. Io gli ho risposto che non avevo alcun piano anche perché da noi in Finlandia non esiste il Giorno del Ringraziamento. A quel punto mi fa: “non esiste proprio che passi il Giorno del Ringraziamento da solo. Vieni da me a festeggiarlo”. E così mi ritrovo nella sua enorme villa a Beverly Hills a festeggiare il Giorno del Ringraziamento con tutta la famiglia Stallone: la moglie, le due figlie, sua madre e suo fratello. Era tutto un po’ surreale, ma sono stato benissimo.

Dunque, tu con Stallone hai girato Cliffhanger, che si svolge nelle montagne, e anche il tuo ultimo film, The Dyatlov Pass Incident, è ambientato nelle montagne. è un caso o hai una particolare attrazione per queste ambientazioni?

Beh, diciamo che a me piace ambientare i miei film in location autentiche, meglio ancora se impervie o che abbiano un elemento di sfida e per questo le montagne o l’oceano sono perfette. Credo che girare in ambientazioni del genere faccia bene anche ai membri della troupe. Pensa che per Cliffhanger non volevo Stallone come protagonista perché, grazie ai vari Rambo, lo vedevo troppo stereotipato come personaggio invincibile. Però lo studio insisteva molto con Stalllone e mi ha chiesto di incontrarlo. Quando ci siamo visti per la prima volta gli ho detto molto francamente che ero consapevole della sua fama di “licenzia-registi”, che aveva stroncato la carriera di molti registi promettenti. Quindi gli ho ribadito che, pur apprezzandolo molto come attore e scrittore, non volevo fare la stessa fine di quei registi.

A quel punto, lui mi ha stretto la mano e mi ha dato la sua parola d’onore che se lo avessi scelto come protagonista per quel film, avrebbe seguito le mie istruzioni e che avrebbe condiviso in tutto e per tutto la mia visione del film. Io mi sono fidato della sua parola e lui è stato fedele alla sua promessa, lasciando che girassi il film esattamente come volevo io. Ti cito come esempio la sequenza di apertura del film, che avevo cambiato rispetto al copione originale. Ne ho parlato con lui e gli ho detto: “Sly, io voglio che nella prima scena una ragazza muoia per colpa tua”, spiegandogli che in modo tale il pubblico lo avrebbe subito percepito come un personaggio più autentico e umano, in grado di commettere errori fatali. Lui mi ha risposto: «Ok, facciamo come dici: sei tu il regista». E così è stato per tutte le riprese. Il film è uscito, è stato un successo e ha rilanciato alla grande la carriera di Stallone.

In effetti, dopo Rocky V, le quotazioni di Stallone erano abbastanza in ribasso.

Già, soprattutto dopo aver fatto film come Fermati o mamma spara e Oscar.

Ma com’era la sequenza d’apertura originale di Cliffhanger, che tu hai cambiato?

Era sempre una spedizione di soccorso, ma nella stesura originale la ragazza sopravviveva. Tutto qui.

Ok. Quindi Cliffhanger è stato il tuo ennesimo successo di una carriera che sembrava inarrestabile. Poi tutto è cambiato con Corsari, che è stato un flop. Ti va di parlarne? Se non sbaglio era una produzione della Carolco.

Esatto. Nonostante sia andato male al botteghino, Corsari rimane comunque un film a cui sono molto affezionato. Il progetto per me era eccitante perché da bambini tutti sogniamo almeno una volta di essere dei pirati. La lavorazione è andata liscia come l’olio, ci siamo tutti divertiti a realizzarlo, però al momento dell’uscita sono sorti due grossi problemi: il primo fu che al pubblico non piacque l’idea di un film di pirati con una protagonista femminile. Il secondo, ancora più grave, fu che la MGM, che doveva distribuire il film, era già sull’orlo del collasso e quindi non avevano soldi da investire per la promozione. Uscire a Natale con un blockbuster senza una corposa campagna di marketing equivale a un suicidio commerciale e così purtroppo è stato.

Quindi, prima ancora che il film uscisse sapevamo che non avrebbe avuto molte chance commerciali, ed è stato un peccato perché ci siamo molto impegnati per realizzarlo. Se poi ripenso che di lì a poco il genere sarebbe esploso con la serie dei Pirati dei Caraibi mi viene da mangiarmi le mani. Ma non voglio negare i miei errori e credo che con un protagonista maschile il film avrebbe avuto maggiori chance di successo. Comunque ho imparato molto da questa dolorosa e severa lezione. Certo, prima o poi, un flop capita a tutti i grandi registi, ma quando capita a te non è certo piacevole, perché ti accorgi che la gente non ti guarda più con gli stessi occhi e diventi un po’ lo zimbello di Hollywood. Ammetto che ho sofferto un bel po’ in quel periodo. Come ti dicevo, prima o poi un insuccesso capita a tutti, ma poi c’è chi reagisce e continua la sua carriera (come me) e chi non regge il colpo. Pensa ad un regista come Michael Cimino. Con Il cacciatore, gli Oscar e l’enorme successo riscosso dal film sembrava inarrestabile. Poi ha fatto I cancelli del cielo e non si è più ripreso da quella sconfitta. Io ho scelto di andare avanti, pur tra alti e bassi, e continuare a sperimentare, come ho fatto con The Dyatlov Pass Incident, dove ho voluto mettermi alla prova con il filone del found footage.

Cosa ne pensi di questo genere, che ora va molto di moda?

Onestamente, credo che sia sia già abbastanza inflazionato. Quando stavo sviluppando Dyatlov Pass era ancora un genere abbastanza fresco, con pochi precedenti come Blair Witch Project o Cloverfield. Purtroppo, tra la scrittura del copione, il reperimento dei fondi e la realizzazione, è passato così tanto tempo che quando Dyatlov era pronto per l’uscita il genere era già abusato e il pubblico si era stancato del found footage movie. è stato comunque un esperimento molto interessante, anche se al momento sono molto più emozionato per il mio prossimo film, Hercules, che sarà ancora differente.

Però, sempre riguardo a Dyatlov Pass, sono curioso di come tu lo abbia sviluppato mettendo in piedi una co-produzione Russia e Stati Uniti.

All’inizio doveva essere finanziato completamente dalla Paramount. Poi la cosa non è andata in porto e abbiamo continuato a cercare finanziamenti. Un giorno un mio amico mi dice che un suo amico produttore russo era appena arrivato a Los Angeles e gli sarebbe piaciuto incontrarmi. Ci siamo visti a pranzo e gli ho parlato del progetto, che è ispirato a un fatto realmente avvenuto in Russia. Il copione gli è piaciuto e si è offerto di co-produrlo. E così è stato. Lo abbiamo girato in Russia con una troupe russa al 99%. L’unico collaboratore americano era il mio aiuto regista. Devo dire che si sono tutti dimostrati molto efficienti e ben preparati. Abbiamo girato parte del film nei teatri di posa a Mosca e il resto in questo piccolo paese minerario al confine col Circolo Polare. Ti giuro, non avevo mai visto tanta neve in vita mia. Abbiamo girato in circostanze estreme, con un freddo polare, e la location era raggiungibile solo con i gatti delle nevi.

Ma l’idea del film è stata tua o di qualcun altro?

Il soggetto lo ha scritto un mio amico e mi è piaciuto subito. La sceneggiatura l’abbiamo scritta insieme. Il film è basato su eventi realmente accaduti e tuttora misteriosi. Così, mi sono ben documentato e ho letto tutto quello che era stato pubblicato a proposito, visitato ogni sito dedicato alla vicenda e visto ogni documentario su questo mistero. Essendo ancora irrisolto, abbiamo cercato di immaginare come potessero essersi svolti i fatti. Ovviamente, la nostra spiegazione è del tutto fittizia, ma ci può stare nel contesto, visto che c’è chi parla di una cospirazione governativa, mentre altri tirano in ballo addirittura lo Yeti. è comunque un mistero molto affascinante.

È comunque un film molto indipendente, sia come realizzazione tecnica che come sviluppo dei personaggi, molto lontano dai cliché hollywoodiani. Anche per questo mi è piaciuto molto.

Concordo. Oggi le grandi produzioni hollywoodiane seguono sempre la stessa blanda formula, per non correre rischi commerciali. E così siamo sommersi da blockbuster di super-eroi e sequel a non finire. Francamente, trovo tutti questi film abbastanza noiosi. Sai, ne parlo spesso con gente come noi, che ama veramente il cinema e gli chiedo perché dobbiamo arrenderci a queste formule viste e riviste. Non possiamo fare qualcosa di diverso?

Io credo che molto dipenda dal pubblico, che quando va a vedere uno di questi film non vuole sorprese, solo che la solita formula funzioni.

Già, questi film sono un po’come i cheeseburger. Magari in giro c’è qualcosa di più buono, ma da un cheeseburger sai cosa aspettarti e non corri rischi di delusione.

Mi puoi raccontare come sono andate le cose con L’esorcista: La genesi?

(sospira sconsolato). Beh quella è stata la classica palla di neve che si trasforma in una valanga. Mi contattò il produttore del film, che è un mio amico, dicendomi che il film era già finito, ma aveva dei grossi problemi, tali da renderlo invendibile. Quindi mi ha chiesto di vederlo e di dargli la mia opinione su come poterlo aggiustare. Tra le altre cose, il regista Paul Schrader aveva già fatto capire che non aveva nessuna intenzione di rimetterci mano. La cosa un po’mi preoccupava, perché ho il massimo rispetto e ammirazione per un regista leggendario come Paul Schrader, ma ho voluto accontentare il mio amico e ho visto il film. Ho capito subito cosa non funzionava e gli ho suggerito che avrebbero dovuto accorciare alcune scene, e girarne delle nuove che fossero un po’ più esplicative. Il produttore è stato d’accordo con me e mi ha chiesto se potevo girarlo io il materiale aggiuntivo. La mia prima risposta è stata: «Perché non convincete Paul Schrader a rigirarle?», ma ormai era troppo tardi perché il regista era in guerra con i produttori. Alla fine ho accettato, più che altro come favore, e ho girato qualche scena aggiuntiva.

Pensavo fosse finita lì e invece continuavano a chiedermi di rigirare sempre più materiale. Poi mi dicevano di non essere convinti di un particolare attore per certe scene e quindi ho rigirato anche quelle scene con un altro attore. E le richieste continuavano, fino a quando non mi sono ritrovato a rigirare almeno il 97% del film e non potevo certo tirarmene fuori. Il copione ormai veniva riscritto di giorno in giorno e tutta la lavorazione è stata un continuo work in progress. Non credo che sia successo prima nella storia di Hollywood. Ti giuro che se lo avessi saputo prima che quelle due o tre scene da rigirare sarebbero diventate 40 o 50, avrei preteso subito una completa riscrittura, perché girare in quelle condizioni è tutt’altro che ideale. Non fraintendermi: lavorare con gli attori è stato bellissimo, così come poter collaborare con un direttore della fotografia come Vittorio Storaro, ma era proprio il modo sbagliato per fare un film e per questo lo considero uno dei film a cui sono meno affezionato tra tutti quelli che ho realizzato. Più che un figlio mio, lo considero un figliastro.

Alla fine sono usciti due film con lo stesso soggetto…. Passando ad altro, mi puoi raccontare qualcosa su The Covenant, che era un horror adolescenziale abbastanza inusuale?

Riguardo a The Covenant, ricordo che mi chiamò il produttore e mi chiese di leggere il copione immediatamente. L’ho fatto, mi piacque ma gli dissi subito che c’erano delle parti che avrei voluto riscrivere. Lui mi disse: “Ok, ne parliamo stasera a cena, ma poi mi devi dare la tua risposta entro 24 ore”. Ho accettato e tutta la lavorazione si è svolta a ritmo frenetico. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per lavorare maggiormente sulla sceneggiatura, però alla fine sono stato abbastanza soddisfatto del risultato finale. Diciamo che sotto certi aspetti è stato un po’ il precursore della saga di Twilight con gli stessi ingredienti: protagonisti giovani, una forte componente romantica e un po’ di stregoneria. Non voglio sembrare come il classico regista che dà le colpe agli altri, ma se lo avessero promosso non come un horror, ma in maniera diversa, più in stile Twilight per intenderci, forse avrebbe avuto maggior successo. L’errore degli addetti al marketing è stato quello di volerlo promuovere come un film spaventoso, mentre l’horror era abbastanza limitato. Comunque mi sono divertito a girarlo e nell’insieme sono contento di come è venuto. La cosa divertente è che grazie a quel film i ragazzi del cast, che all’epoca erano perfetti sconosciuti ed esordienti, sono quasi tutti diventati delle star del cinema o della tv.

Ma li hai scelti perché erano esordienti o è stato un caso?

è stata una mia scelta di avere nel cast volti freschi, ma è una cosa che mi piace molto scoprire nuovi talenti, come è accaduto con Viggo Mortensen per Prison. Anche nel mio imminente Hercules 3D c’è un nuovo talento che scommetto che farà molta strada. Si tratta di Gaia Weiss, un’attrice di 21 anni che per ora ha fatto solo due film, di cui uno italiano e uno scozzese (Mary Queen of Scots), in cui ha una piccola parte. Non mi ricordo il titolo del film italiano (Bianca come il latte, rossa come il sangue, ndt) ma è tratto da un libro. La cosa buffa è che lei è francese, parla benissimo inglese ma neanche una parola di italiano. Comunque, dopo aver provinato circa 80 attrici, ho visto lei e le ho subito affidato la parte di Hebe. Credimi quando ti dico che tra circa un anno quella ragazza diventerà una superstar.

Cos’altro ci puoi dire di Hercules 3D? Quando uscirà?

Dovrebbe uscire a marzo (in realtà a gennaio, ndt). Tra l’altro è una co-produzione con l’Italia e il produttore italiano è Fulvio Lucisano, che immagino tu conosca.

Conosco molto bene lui e la figlia. Lucisano negli anni 60-70 ha prodotto moltissimi film. Tornando a Gaia Weiss, lei è la co-protagonista, giusto?

Esatto. Il film è anche una grande storia d’amore e  lei interpreta la regina di Creta, di cui Hercules è innamorato. Direi che Hercules 3D è una versione molto action e mitologica di Romeo e Giulietta. Devo dire che oltre a essere bellissima, Gaia è un’attrice impressionante. Quindi, ti garantisco che da qui a un anno insieme alle varie Julia (Roberts) e Meryl (Streep) ci sarà un’altra star di cui tutti parleranno: Gaia. Farò presto un altro film con Fulvio Lucisano, col quale ho instaurato un ottimo rapporto.

Tornando un po’indietro, vorrei chiederti di parlarmi di Profondo blu (The Deep Blue Sea), che è uno dei tuoi film che mi piace di più in assoluto.

Anche quella la ricordo come un’esperienza fantastica. Lo abbiamo girato in Messico, nello stesso Studio costruito per Titanic, con questa vasca gigantesca. è uno dei film che ricordo con maggior emozione e forse il più complesso in assoluto da girare. C’era di tutto: riprese subacquee, esplosioni e soprattutto gli squali meccanici, tra cui uno lungo 7,5 metri, radiocomandato e alimentato da un motore da 1000 cavalli. Quando lo abbiamo girato, circa 15 anni fa, gli effetti in CGI non erano ancora così sofisticati come adesso. Quindi la maggior parte delle scene con gli squali è stata realizzata con squali meccanici. è stata una lavorazione estenuante ma elettrizzante. Passavamo ogni giornata di lavoro immersi in questa enorme vasca piena d’acqua proveniente dall’Oceano Pacifico e quindi molto fredda. Tutta la troupe (e ti parlo di 100-150 persone) lavorava indossando mute subacquee. All’inizio, tutti si lamentavano perché per andare in bagno dovevi toglierti e poi rimetterti la muta. Poi, a un certo punto nessuno ha più chiesto di andare in bagno e, chissà come mai (ride), l’acqua nella vasca diventava sempre più calda. è stata una sfida sotto ogni aspetto. Pensa che per quel film abbiamo anche sperimentato un nuovo tipo di carta, completamente impermeabile, e l’abbiamo usata per i copioni, gli ordini del giorno e gli appunti di montaggio. Anche tutto il set e la mobilia doveva essere costruita in modo che non venisse a galla, altrimenti sarebbe stato un casino. Comunque è stato tutto molto divertente e istruttivo.

Cosa mi puoi raccontare di Nella mente del serial killer (Mindhunters)? So che ebbe una storia travagliata in fase di post-produzione.

Anche quella è stata un’esperienza divertente, anche se a tratti assurda. L’ambientazione principale era una città costiera del South Carolina, ma i produttori, per motivi di tax credit lo vollero girare in Olanda. Quindi dovemmo girare un film ambientato nella costa americana in una città in Olanda dove non c’era nemmeno il mare. Era tutto abbastanza assurdo. Comunque, la lavorazione andò bene e nel film c’erano ottimi attori, tra cui Val Kilmer, col quale ho poi fatto un altro film (Five Days of War) e che è diventato un mio carissimo amico. Quando finimmo le riprese, però, la Miramax decise di sganciarsi dalla Disney e quindi molti film, tra cui il mio, rimasero in ibernazione, fino a quando non fossero stati chiariti tutti gli aspetti legali della separazione, tipo chi avrebbe pagato per la promozione, chi per la distribuzione, etc… Questo fatto fu abbastanza traumatico per tutti, tanto che tra questi film rimasti in sospeso, quasi una ventina nemmeno uscirono nelle sale. Qualcuno ebbe una distribuzione molto limitata, mentre altri finirono direttamente tra gli straight-to-video. Quel che ho capito che a Hollywood trovare i finanziamenti non è l’elemento primario. La cosa veramente importante è poter contare su produttori che abbiano una buona rete di distribuzione e che vogliano investire molto sul marketing.

In definitiva, avendo tu lavorato sia con gli studios che con produzioni indipendenti, quale sistema preferisci? Uno dei tuoi ultimi film, Five Days of War, era una produzione indipendente.

Ci sono pro e contro in entrambi i sistemi. Quando realizzi un film da indipendente hai piena libertà creativa, senza il rischio che un executive di 23 anni possa interferire col tuo lavoro. Quando hai un film in uscita per uno Studio, hai la loro protezione totale, il pieno sostegno economico e la garanzia che il film sarà promosso adeguatamente. Quindi non ho una preferenza specifica, mi trovo a mio agio a lavorare in entrambi i modi, a patto che il progetto mi coinvolga e che i produttori non cerchino di annacquarlo  o semplificarlo per renderlo fruibile a tutti.

Parlando dei film che hai fatto con gli Studios, cosa mi puoi dire di Driven, che era anche la tua seconda collaborazione con Stallone? Non ricordo se il film ebbe successo o meno.

Alla sua uscita Driven si piazzò al primo posto della classifica del weekend, poi si è arenato. Non è stato comunque un flop, perché ha incassato abbastanza da coprire tutte le spese. Da Driven, però, ho imparato una lezione fondamentale: mai fare film su argomenti che sono la tua passione principale. Per cui se adori il golf, non fare mai un film sul golf.

Deduco quindi che tu sia un appassionato di corse e Formula 1.

Sono sempre stato e sempre sarò un patito di corse automobilistiche. Non avrei mai dovuto fare quel film. Certo, da una certo punto di vista parti avvantaggiato perché sai tutto, o credi di sapere tutto, sull’argomento, ma quando sei accecato dalla passione sei portato a tralasciare certi aspetti fondamentali della storia che stai raccontando. Il problema grosso di Driven era che alla fine non sapevamo esattamente che ruolo avesse il personaggio interpretato da Stallone. Avrebbe dovuto fare da padrino per il giovane talento emergente o essere il campione? Non era certo un problema da poco, perché la sola idea di un asso del volante di 50 anni era poco credibile. Alla fine, non abbiamo fatto una scelta precisa, col risultato che il personaggio di Stallone rimane sempre un po’ sfocato e a volte fuori luogo.

In ogni caso, le scene di gara erano fantastiche, soprattutto quella della gara notturna tra le strade della città.

Sulle scene di gara credo di aver fatto un ottimo lavoro e quella sequenza l’abbiamo veramente girata di notte, in pieno centro a Toronto. Io dirigevo le scene a bordo di un camera-car costruito appositamente per il film. Era una vera macchina da corsa equipaggiata con decine di cineprese che potevano riprendere l’azione da ogni angolatura possibile. A bordo di questo bolide, in grado di competere come velocità con le macchine da corsa del film, eravamo solo in tre: io, il pilota e l’operatore. Quindi controllavo le riprese sul monitor mentre sfrecciavamo a più di 180 Km/h per le strade di Toronto. Lì mi sono divertito moltissimo.

E cosa mi puoi dire a proposito di Cleaner?

Cleaner era un progetto che mi ha proposto personalmente Samuel L. Jackson, che lo aveva letto e ne era entusiasta. Con Samuel siamo amici fin da quando girammo insieme Spy (The Long Kiss Goodnight). Samuel voleva che lo leggessi a tutti i costi e voleva che fossi io il regista del film. E aveva ragione, perché lo script era veramente buono. Quindi accettai la sua proposta, anche perché per me era il momento giusto per fare un film serio, drammatico, semplice come struttura, basato interamente sull’interazione dei personaggi e senza scene d’azione. Quindi abbiamo trovato i finanziamenti grazie alla Millennium Film e lo abbiamo realizzato nella massima tranquillità. è stata un’esperienza molto bella, perché finalmente potevo mettermi alla prova con un film incentrato su personaggi reali, sul rapporto tra un padre e una figlia, senza preoccuparmi troppo di coordinare stunt, esplosioni e tutto quello a cui ero di solito abituato.

Beh, direi che abbiamo finito e ti ringrazio per la tua disponibilità per questa nostra intervista-carriera.