Intervista Alejandro Jodorowsky

Sono passati 23 anni dall’ultima incursione al cinema di Alejandro Jodorowsky, il visionario artista di origini cilene, tra i padri del movimento panico. Oggi, a 84 anni, è tornato alla regia di un film ed è il protagonista di un documentario. (Cannes, 2013)
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Con La Danza de la realidad è la prima volta che lei realizza un film con del materiale esplicitamente autobiografico, ma la sua scrittura resta sempre molto fantasmatica e onirica, come se lei sognasse la sua infanzia in una povera, piccola città del Cile, e fornisse delle chiavi per meglio comprendere nello stesso tempo la sua vita e la sua opera. Che cosa rappresenta per lei questo film in forma di ritorno alla origini, ventitré anni dopo il suo ultimo lungometraggio?

Per me questo film è come una bomba atomica mentale. Ho scritto dei libri e inventato una terapia, che si chiama “Psicomagia” e che consiste nel guarire, con degli atti, problemi psicologici dell’infanzia legati alla famiglia. La danza de la realidad non è soltanto un film ma anche una forma di guarigione familiare, poiché tre dei miei figli sono attori nel film. Io torno alle sorgenti della mia infanzia, nel luogo stesso in cui sono cresciuto, per reinventarmi. è una ricostruzione che parte dalla realtà ma mi permette di cambiare il passato. Abbiamo girato il film nel villaggio della mia infanzia, Tocopilla, che non è cambiato da 80 anni a questa parte, esattamente nella strada in cui si trovava il negozio dei miei genitori. è il solo magazzino che era bruciato in questa strada e l’ho ricostruito apposta per il film. Ho fatto qualche ritocco ridipingendo la sala cinematografica o riparando l’asfalto della strada.

Quando ero bambino questa città mi ha rifiutato, a causa del mio aspetto fisico: avevo la pelle bianca, il naso appunttito (mi chiamavano Pinocchio), ero figlio di emigranti giudei russi in mezzo a un territorio comperato alla Bolivia e popolato da indiani. Per cui ero un mutante per gli abitanti. Non avevo nessun amico e ho passato la mia infanzia chiuso nella biblioteca a leggere tutti i libri. Nel film mostro come i bambini si prendessero gioco di me a causa del mio sesso circonciso. Grazie alla lavorazione del film e alle migliorie apportate alla città, sono diventato il salvatore, il figlio ideale di Tocopilla, alla fine. Mi hanno anche rilasciato un diploma. Sono l’eroe che ha portato il filtro magico per salvare il suo popolo, e questo filtro magico è il cinema.

Si tratta di un luogo povero, isolato. Come è stato tornare nel suo villaggio natale?

Era come in un sogno. Tutto è avvelenato dall’inquinamento delle fabbriche e delle miniere. Eravamo un po’ malati, non c’erano alberghi. Ho ritrovato la città tale e quale. Come nel film, avevo i capelli lunghi e me li hanno tagliati nello stesso parrucchiere. Ed è il figlio del parrucchiere che è venuto a scuola con me che taglia i capelli del ragazzo nel film. Per me l’arte deve essere più che l’arte, bisogna realizzare qualcosa di diverso da uno spettacolo capace di piacere o di creare ammirazione.

I suoi film precedenti erano ugualmente degli esperimenti che sorpassavano il medium cinematografico. Santa Sangre era anche una terapia violenta in cui lei metteva in scena i suoi stessi figli…

Era a causa del produttore Claudio Argento che voleva un film dell’orrore con un serial killer. L’ho fatto, ma a modo mio. Quando ho girato El Topo, volevo fare un western per colpire il pubblico americano perché il mio primo film, Fando y Lis, non era stato capito. Con La Danza de la realidad ho avuto la possibilità di trovare un giovane, Xavier Guerrero, il quale mi ha detto che avremmo potuto avere accesso a delle sovvenzioni del Governo cileno e avremmo cominciato a girare molto in fretta. Alla fine, il Governo non ci ha dato nulla ma noi abbiamo preparato il film con un po’ di soldi e le mie economie. Grazie al documentario su Dune ho ritrovato Michel Seydoux che non avevo più visto da molto tempo. Credevo che fosse arrabbiato con me perché non eravamo riusciti a fare Dune, per cui non volevo più parlargli per orgoglio. Abbiamo scoperto che eravamo sempre amici e che entrambi avevamo sofferto di non avere realizzato Dune, quando ho avuto l’idea di parlargli di questo nuovo progetto. Mi ha chiesto cosa volessi e gli ho risposto: «Voglio uno… due milioni di dollari per fare un film di cui non ti dirò nulla. Voglio solo che mi lasci tranquillo, che tu abbia fiducia in me. E ti mostrerò il film quando sarà terminato». Mi ha detto «Sì», subito. Io non piango mai, ma la sua risposta mi ha talmente emozionato che ho dovuto trattenermi per non scoppiare in singhiozzi. è ciò che io chiamo un miracolo, perché alla fine ho potuto fare il film proprio come volevo, in totale libertà.

Lei descrive i suoi genitori come dei personaggi eccentrici: suo padre (interpretato da suo figlio Brontis Jodorowsky) è vestito come Stalin e sua madre non si esprime che cantando. Quale è la parte di invenzione, quale quella di realtà?

Devo dire che il fatto di interpretare mio padre ha cambiato la vita di mio figlio! Tutto è vero o quasi. Mio padre era comunista ed era sempre vestito come Stalin. Il film è un adattamento dal mio romanzo autobiografico La danza della realtà e ho scritto un altro libro, Il figlio del giovedì nero, nel quale mi invento che mio padre va a uccidere Ibáñez (presidente della repubblica del Cile dal 1927 al 1931 e dal 1952 al 1958, ndr). Questa parte è immaginaria. Voleva farlo ma non mise mai in esecuzione il suo piano. Mia madre voleva essere cantante ma non lo è mai stata. Nel film, io realizzo i sogni di mio padre e di mia madre, e realizzo il mio sogno di riunirli di nuovo e di creare una famiglia.

Il suo universo visivo è molto barocco e delirante ma la regia resta sobria, frontale e quasi teatrale, con delle inquadrature fisse che rimandano alla sua esperienza con i fumetti.

Ho detto al mio direttore della fotografia Jean-Marie Dreujou che volevo un’immagine clinico-fotografica, non estetica. Volevo che la bellezza risultasse dal contenuto, non dalla forma. Quindi abbiamo deciso di eliminare la forma, di non mettere niente tra la macchina e ciò che viene filmato, di non fare movimenti di macchina inutili. Ho anche soppresso tutto l’armamentario tecnico che circonda abitualmente la lavorazione per non avere che un cameraman con la sua steady cam. Alla fine del film, ho lavorato su tutti i colori, grazie al digitale.Questo film rappresenta una prodezza tecnica perché è stato realizzato in maniera estremamente originale. Ho ucciso l’estetismo per creare un’altra estetica. Mi sono limitato all’essenziale, il montaggio e le inquadrature devono molto al fumetto, il film avanza come un fiume.

In La Danza de la realidad si ritrova un folklore associato al suo cinema: il mondo del circo, i mendicanti storpi… Faceva parte del suo quotidiano da bambino?

Evidentemente! Gli infermi erano già lì quando ero bambino, li ho filmati nello stesso posto. Il villaggio era pieno di uomini mutilati per gli incidenti nella miniera e le esplosioni di dinamite. Handicappati e impossibilitati a continuare a lavorare, li hanno gettati in strada come dei cani. Si ubriacavano con alcool puro.

Grazie a La Danza de la realidad si comprende che tutte le immagini e i personaggi barocchi che popolano i suoi film non provengono da riferimenti culturali o cinematografici ma dalla sua stessa vita.

Mia madre aveva dei seni enormi, ho dovuto cercare un’attrice con un petto opulento. Se si mostra una donna iperdotata si pensa a Fellini, se si mostra un nano si pensa a Buñuel, se si mostra un freak si pensa a Tod Browning. Ma no, era la vita nel mio villaggio. Tutti gli elementi della mia infanzia sono lì.

Numerosi registi non nascondono oggi l’ammirazione per i suoi film, da Nicolas Winding Refn a Gaspar Noé passando per Rob Zombie…

È un piacere e un unguento per guarire le mie piaghe. Mi sento come un radiatore pieno di cicatrici. La mia vita come regista non è stata sempre facile. In Messico mi volevano linciare dopo la proiezione del mio primo film Fando y Lis. Sono stato vittima di insulti e di persecuzioni. La montagna sacra ci ha messo trent’anni per essere riconosciuto. Ho atteso a lungo per fare i miei film e ho sempre rifiutato di fare cinema commerciale. El Topo ha avuto un bel successo underground a New York e questo periodo era molto felice per me ma poi la cosa si è fatta più complicata. Però non ho mai smesso di immaginare dei film che non potevo realizzare, ne ho centinaia in testa. Spero che La danza de la realidad sia l’inizio di un nuovo ciclo, una rinascita del mio cinema che è sempre stato una lotta contro l’industria.