Intervista a Tobe Hooper

Il regista di Non aprite quella porta si racconta(va)...
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John Landis afferma che Non aprite quella porta non sia una metafora sociale dell’America dell’epoca, ma piuttosto una fiaba classica. Sei d’accordo?

Sì in parte, nel senso che Non aprite quella porta è veramente una specie di fiaba dei Grimm, ed è un archetipo come le loro favole, ma parla di una brutta giornata in America. Viene anche da tempi bui, i tempi del Watergate, che fu una rivelazione al contrario, nel senso che noi scoprimmo che ci avevano mentito: tramite la televisione, i telegiornali e addirittura tramite il nostro Presidente. Poi la penuria di benzina, sia che fosse vera o inventata; e dunque quello è il motivo per cui i ragazzi protagonisti del film non trovano la benzina: la pompa non era ancora stata rifornita dall’autocisterna. Era un po’ vedere le cose che accadevano in quel periodo e rappresentarle, e credo sia stata un’operazione cosciente la nostra… Non che fosse mia intenzione puntare il dito per accusare qualcuno, ma era un’idea di fondo. Inoltre, un’altra cosa da sottolineare del film è che l’uccisore del mattatoio era disoccupato, e le imprese chiudevano per via della mancanza di benzina. In questo senso il film è molto americano.

Nel sequel del film, Non aprite quella porta – Parte 2, la famiglia impazzita, disgregata e composta da disoccupati diventa la metafora di una classe sociale di piccoli imprenditori i quali, durante l’amministrazione Reagan, hanno dovuto chiudere bottega… Anche in questo caso il tuo scopo conscio era di rappresentarli?

Sì, quello è tutto vero, è nel dialogo. Racconta di come le piccole imprese lo prendono sempre in culo, le tasse che sono molte, etc…. E inoltre parla della famiglia che ha fatto l’esperienza della libera impresa così ora, appena prima del franchising, cerca di vendere il maggior numero possibile di sandwich grigliati la notte precedente l’Oklahoma UT Football Game, quando tutti impazziscono e… comprano (ride). Inoltre, c’erano un paio di scene che sono state tagliate, come quella che mostrava alcuni ragazzi macellati in un garage sotterraneo, degli universitari. Le abbiamo tolte perché non funzionavano proprio; alcune le aveva girate la seconda unità, e io ho tolto tutte le scene girate dalla seconda unità.

Quale è stato il tuo rapporto con la censura? Hai mai avuto dei problemi con l’MPAA?

Qualche volta sì, ma per quanto riguarda il primo film sono stato straordinariamente fortunato, non ho dovuto fare un singolo cambiamento, un solo taglio, e li avevo pure chiamati! Ma in quei giorni la MPAA era ancora in formazione, esisteva da un paio di anni… beh, da diversi anni, ma ti parlavano, potevi chiamare e chiedere consiglio, tipo: «Come posso fare per appendere una tizia a un gancio da macellaio e ottenere un PG?». E questo era prima del PG-13, e loro hanno detto: «Non puoi», e io: «E se non faccio vedere la lama che penetra come Hitchcock ha fatto nella scena della doccia in Psycho, dove la violenza è solo suggerita?». E loro: «Sembra ragionevole, ma dobbiamo vedere»,  ma almeno ho avuto qualche risposta, ho potuto confrontarmi con loro e così ho fatto per tutto l’arco della lavorazione, sapendo che se mi avessero dato una X sarei tornato al punto dov’ero prima di iniziare le riprese. Tuttavia lo proiettarono, e si accese una lucetta sulle loro cartelline, uscì fuori con una R e senza tagli. Ma in seguito ho fatto un film in cui ho dovuto tagliare un paio di cose per la MPAA, anche se Non aprite quella porta – Parte 2 (The Texas Chainsaw Part 2, 1986) avrei comunque dovuto tagliarlo per ottenere il rating, a causa dei magistrali effetti speciali, anatomicamente corretti di Tom Savini. Il primo era davvero senza sangue paragonato agli horror che sarebbero stati realizzati in seguito: pensa a Venerdì 13 (Friday the 13th,  Sean S. Cunningham, 1980) per esempio. Quando i film sono diventati davvero sanguinari, ho pensato che Texas 2 dovesse essere per forza più sanguinario rispetto al primo… Magari ho avuto una reazione eccessiva a questa nuova tendenza cinematografica.

Per quanto mi riguarda la scena più terrorizzante di Non aprite quella porta è quella in cui Leatherface sbatte la porta e ti lascia solo immaginare quello che sarebbe successo a breve. È stata una tua scelta precisa quella di non mostrare sangue o è stata dettata dal piccolo budget che avevi a disposizione nel 1973?

Domanda interessante… Ci devo pensare… Comunque, sì, sono sempre stato affascinato da questo tipo di approccio al fantastico. Essendo cresciuto come un fan appassionato del genere ho imparato ad apprezzare le cose che non vedevo e che mi venivano suggerite perché la mia immaginazione le portava oltre, molto più oltre di quello che avrei mai potuto vedere, e sentivo, sapevo che tutti avevano questa capacità dentro… Divenne chiaro come il sole quando vidi Psycho (Alfred Hitchcock, 1960). È quello che non vedi che ti spaventa… come in Il bacio della pantera (Cat People, Jacques Tourneur, 1942) le cose che vedi nell’ombra. Nella tua mente vedi cose che sono molto più incredibili di quelle che qualsiasi regista potrebbe mai realizzare. Dunque è stato intenzionale, come quando la ragazza, Teri, cioè  Pam, viene appesa al gancio: c’è del sangue secco sul muro dietro di lei e poi ho staccato su questo grande secchio, questa grande vasca da bagno, e tu sai a cosa serve, ma non c’è sangue che ci sgocciola dentro, sono solo suggerimenti. Penso inoltre di avere stabilito il tono quando ho fatto avere a Kirk uno spasmo muscolare dopo che era morto, dopo che ti eri immaginato il suo cranio spappolato, e un frammento osseo era finito nel suo midollo spinale o nel suo sistema nervoso e il suo corpo aveva iniziato a contrarsi involontariamente. Penso che questo fosse nuovo al cinema, non penso che nessuno avesse mai visto niente del genere. Fino ad allora ti sparavano e cadevi a terra morto, o ti colpivano con un coltello, o ti tiravano una freccia, cadevi ed eri morto. Una volta, quando ero bambino, sono stato colpito in testa con una mazza da golf. Frequentavo questi ragazzini vivaci, mi trovavo in piedi dietro questo ragazzo e giocavamo a golf, lui colpì la palla e quando la mazza si abbassò mi prese alla testa, e mi portarono di corsa al pronto soccorso a farmi dare i punti in testa… Mi è successo di tutto!  Fin da quando, a tre anni, l’insegna dell’albergo di mio padre cadde, mi colpì alla testa e mi ricucirono, a quando sul triciclo facevo una ripida salita in cemento e mi ribaltai all’indietro, mi spaccai e mi ricucirono… ma il punto è che quando vieni colpito i tuoi muscoli fanno davvero queste cose strane, salti, e vedi le stelle. Dunque volevo innanzitutto restituire la realtà fisica del dolore.

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Come è nata l’idea che ti ha portato ha scrivere Non aprite quella porta?

È stato davvero interessante. Lavoravo su qualcosa di molto più astratto e fantasy. Si trattava di alcuni ragazzi in un furgone, isolati in un bosco, c’era una casa con un ponte e dei troll che vivevano là. I ragazzi si imbattono in una casa nei boschi più soprannaturale, in realtà, con dei troll sotto un ponte, poi la casa cambia, muta, si muove. Stavo lavorando a questo progetto quando un mio amico, Kim Henkel, che diventò il cosceneggiatore di Non aprite quella porta, mi disse: «Forse questo mondo horror surreale che stai creando funzionerebbe meglio tra dieci anni», io ci ho pensato un po’ su e ho detto: «Va bene, ma non è una buona ragione per mandare a monte questo progetto!». Pensai che l’idea di restare senza benzina, isolati nei boschi e poi imbattersi in una casa in cui le cose non vanno come dovrebbero fosse semplice, ma funzionava! Poi durante le vacanze di Natale stavo facendo spese, e io odio la folla perché non puoi fuggire, e quindi mi trovavo in questo supermercato – forse hai già sentito questa storia – e vedevo una porta in fondo a un corridoio pieno zeppo di gente. Più guardavo la porta più un trombone mi suonava nella testa, più lo spazio si allungava e si dilatava, e c’erano persone ovunque, e io mi trovavo in quello che mi resi conto fosse il reparto ferramenta. Focalizzai l’attenzione sullo sfondo e c’era una motosega di fronte a me, a 100 metri, c’era uno scaffale pieno di seghe elettriche in vendita, e io pensai: «Porca miseria, se accendessi una di queste quella gente si dividerebbe come il Mar Rosso e così potrei arrivare alla porta». Quando sono uscito da quel posto e sono tornato a casa misi sullo stereo Yellow Brick Road di Elton John; ho messo su quella musica, mi sono seduto e ho pensato a quella sega, ho pensato alla macchina che finiva la benzina e alla casa nei boschi e poi ho pensato all’autostoppista e in 30 secondi tutta la faccenda è venuta fuori, è stato proprio così ed è stato quasi… è così strano perché ho chiamato il mio cosceneggiatore e abbiamo iniziato a scrivere il copione quella sera stessa, abbiamo finito la sceneggiatura in poche settimane e poi ci sono volute solo due settimane per trovare i soldi, e siamo entrati in produzione così velocemente che è quasi come se la storia avesse scelto me invece del contrario.

Un altro aspetto importante del film, quello che più di tutto il resto si presta a una lettura di metafora sociale, è la completa mancanza di controllo: i ragazzi litigano, si scontrano con degli assassini irrazionali, i quali si azzuffano persino tra loro. La perfetta immagine di una nazione nella quali i poveri cittadini erano confusi e freneticamente abbandonati a loro stessi. Cosa ne pensi?

Sì, è proprio così, erano completamente fuori controllo, erano esattamente come Leatherface: dopo averci pensato potevi dire: «Povero Leatherface», perché è di questo che si trattava. Nella scena immediatamente successiva a quella in cui ha ucciso tutte quelle persone corre alla finestra, guarda fuori e vede che ci sono le galline nelle gabbie, si siede e si chiede: «Da dove diavolo vengono tutte quelle persone? Sono davvero nei guai». Questo è quel che succede nella sua testa, è il suo sottotesto. Che diavolo succede qui? Questa gente che entra dalla porta così, ci stanno invadendo!

Parlami della famosa scena del “make up di Leatherface” che non hai montato nella versione definitiva e che rappresentava molto bene la perdita di identità del personaggio e la sua confusione sessuale. Come mai l’hai scartata?

Non l’ho girata completamente, ne ho girata una parte, stavo finendo il tempo, e dal momento che era una divagazione la storia poteva farne a meno. Il tempo stava letteralmente per finire, non me ne sono interessato perché era fatta molto in fretta, era in pratica un solo set-up e un’inquadratura, e per funzionare da un punto di vista cinematografico aveva bisogno di essere più elaborata, con primi piani ecc. Invece mi sembra che fosse solo Leatherface che si incipriava la maschera, che si truccava, diventando quasi una figura femminile. In un certo senso lui svolgeva il ruolo che la società tradizionalmente ha affidato alle donne per molto tempo: servire e accudire, e dentro di sé lui era convinto che fosse appropriato atteggiarsi a madre, e donna. A tutt’oggi la sua sessualità è un discorso ambiguo per me, e non voglio saperlo, credo che non vorrò mai saperlo, sono affari suoi.

In Non aprite quella porta però, il sottotesto sessuale, o meglio di confusione e repressione sessuale, emerge chiaramente. Mi riferisco soprattutto alla scena in cui Leatherface usa la motosega come prolungamento del pene… Cosa ne pensi?

La repressione sessuale genera mostri. Penso che accada tutti i giorni. Naturalmente, quello era un modo di dirlo, ma è certamente la repressione sessuale che alla fine esplode in un sacco di serial killer

Si dice che sul set di Non aprite quella porta si respirasse un’atmosfera di tensione data anche dal brutto rapporto che c’era tra te e gli attori e che questa atmosfera abbia favorito la buona riuscita del film. È vero?

Sì, era strano, era come se ci fossero varie fazioni. Durante la pausa pranzo c’erano piccoli schieramenti di varie persone che mangiavano insieme, e io ero quello che dava gli ordini e pretendeva. Sapevo che avrei dovuto provocare una vera isteria in loro, e se fossi stato capace di catturare su pellicola una autentica paura, questa si sarebbe trasferita sullo schermo e sarebbe stata contagiosa, così come lo è una risata, tra il pubblico, o perfino uno sbadiglio. Così sapevo che la paura sarebbe stata contagiosa, e dunque caricavo gli attori, o loro si caricavano da soli coi miei suggerimenti, e anche facendo un sacco di ciak. Poi l’atmosfera della scena al tavolo da pranzo, e tutto quello che vi accadeva intorno, la girammo per 27 ore consecutive e questo rese la gente molto strana, e non solo questo. Iniziarono a sentirsi molto male per l’odore degli oggetti di scena, che marcivano per via del calore delle luci con cui giravamo, delle luci al quarzo. Giravamo su pellicola in Superotto, e così avevamo una gradazione ASA penso di 25, il che vuol dire dover usare una quantità di luce dannatamente elevata. Volevo far vedere nella casa degli animali domestici imbalsamati, ma non riuscimmo a trovare niente del genere, e io pensai: «È un vero peccato». Poi qualcuno andò al canile cittadino e portò circa 500 o 600 animali. Può essere un numero esagerato, ma dico questo solo perché era un camion della discarica, e il fondo straripava di animali uccisi nel canile municipale. Dorothy Pearl, la truccatrice, iniettava della formalina in queste povere creature per vedere se fosse possibile metterle su dei bastoni, in modo che stessero in piedi, ma naturalmente non potevano. Girammo per 27 ore e dovevamo realizzare una scena notturna; c’erano 117 gradi F (circa 39 Celsius, ndt) in Texas. Così ricoprimmo la casa per far sì che sembrasse notte, e divenne ancora più caldo. Poi iniziammo a sentire una puzza terribile, e del fumo nero entrava dalle finestre. Avevano preso quel camion pieno di carcasse e lo avevano scaricato a circa 50 metri, anzi ancora più vicino, sul retro della casa,  avevano buttato sopra 5 galloni di benzina, su queste 900 libbre (3 quintali, ndt) di carne e ci avevano tirato sopra un fiammifero acceso. Non so che pensavano, ma se butti del gas su qualcosa di morto e accendi il fuoco c’è una deflagrazione e si alza un gran fumo. Comunque guardavamo dalla finestra sul retro questi 10 metri di diametro, una specie di marshmallow nero e sanguinolento che cresceva e bruciava, e il fumo nero che entrava. Poi  dovetti chiamare il medico perché la gente, tra un ciak e l’altro, andava alla finestra e si affacciava fuori per vomitare. Il medico dette loro della dramamina, o qualcosa per il mal d’aria, qualcosa che ti impedisce di vomitare, ho dimenticato cosa fosse. Ma ad ogni modo tutto questo contribuì a creare l’atmosfera. In parte era intenzionale, e in parte casuale.

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Mi racconti come sei stato coinvolto nel progetto di Poltergeist – Demoniache presenze e com’era il tuo rapporto con Spielberg?

Con Steven? Steven e io eravamo amici e ci frequentavamo da tre o quattro anni prima del film, e così mi chiese di andare al suo ufficio un giorno e mi disse che voleva che facessi una specie di versione dark di Incontri ravvicinati del terzo tipo  o un E.T. dark. Io dissi: «Mi sembra fantastico, ma forse sarebbe meglio una ghost-story», perché ce ne sono state solo poche che hanno avuto successo, come Gli invasati di Robert Wise. Eravamo entrambi grandi ammiratori di quel film, e l’ufficio che mi dettero alla Universal era stato proprio quello di Robert Wise, che ci aveva lasciato un paio di libri. Uno era un manuale sui poltergeist e uno era un paperback di The Haunting of Hill House di Shirley Jackson, che era diventato The Haunting. Queste cose mi furono d’ispirazione, e fu il libro dei poltergeist, che immagino fosse stato il testo di consultazione di Robert Wise mentre faceva The Haunting, a divenire lo stesso che usammo per Poltergeist. Ci mettevamo al tavolino e cercavamo il fenomeno paranormale successivo, a volte semplicemente giravamo la pagina e mettevamo il dito a caso e lo trovavamo, ed è così che iniziò. Steven essenzialmente scrisse la sceneggiatura, ed è accreditato come sceneggiatore… Erano previste in origine delle morti reali, come Carol Ann che veniva uccisa, ma la sceneggiatura fu trasformata e leggendola ci rendemmo conto che non era così buona, non era quello che lo studio si aspettava…

Quindi non sei pienamente soddisfatto del risultato finale di Poltergeist?

Sì, lo sono… no, sto solo parlando della genesi del film. È un horror, sicuro, è un “safe darkness”, ma tocca archetipi della paura infantile, come il ripostiglio buio, le cose sotto il letto, i clown, gli alberi, e perfino le forme e le nuvole, tocca molte di queste cose. Quella è stata una esperienza meravigliosa e istruttiva per me, specialmente in fatto di effetti speciali: Richard Edlund era il guru della ILM (la società di George Lucas specializzata in effetti speciali, ndr) e fu veramente cool diventare un esperto di effetti speciali in seguito ai suoi insegnamenti.

Una delle scene più suggestive è quella della corda usata come ponte con l’aldilà, o comunque con il limbo… Come l’hai concepita?

Il concetto della corda viene direttamente dal libro dei poltergeist, si chiamano “sotto-bilocazioni”, tipo le altre dimensioni… Voglio dire, puoi non crederci, ma ci sono un sacco di bilocazioni testimoniate. Qualcuno a Los Angeles o Hollywood andava in bagno, chiudeva la porta, si girava e scopriva di essere nel bel mezzo di Piccadilly Circus! E poi veniva rimandato indietro. C’è chi giura che sia successo. Ci sono un sacco di casi di bilocazioni, e c’erano molti racconti di cose che cadono, di gioielli che cadevano da quel buco, quella apertura, che era una foratura; è quello che nel sottotesto della sceneggiatura noi chiamiamo “la zona morta”. Si tratta di una zona a 18 piedi sul livello del mare che curva attorno al mondo, attorno alla Terra, come l’atmosfera. Poi c’era questa teoria di una memoria alta 8 piedi e spessa 3 che circonda il mondo e cattura i cattivi discorsi, le idee cattive, mentre le idee buone vengono filtrate  più in alto. Quindi quella era una foratura in quella zona, e quella zona iniziava a bilocare gioielli, e cose dal cimitero.

Un’altra importante caratteristica che accomuna Poltergeist ad altri horror di quel periodo come Videodrome e Halloween III è la tv come fonte del male, una tv che uccide. Cosa rappresentava per te questo concetto?

Quello che pensavo era… È in un’inquadratura che ho fatto, che è sul poster, sulla locandina, la ragazzina tocca la tv come se dentro ci fosse il monolite di 2001. È un buco, un buco in un’altra dimensione, è uno specchio. Ed è molto strano… Dopo quel film ci furono un sacco di racconti di spettri che uscivano dallo schermo della tv, come al Del Coronado Hotel a San Diego, che è stregato. Laggiù c’è una stanza con un apparecchio tv da cui dicono esca un fantasma. Io ci sono andato e ho provato a riprendere quel fenomeno, ho fatto un documentario sui veri casi di infestazione, per la CBS, e il Del Coronado Hotel era uno dei posti che si credevano pesantemente infestati. Ce n’era un altro, in un Toys, dove i giocattoli volavano per aria, almeno così dicevano i commessi. Dicevano che gli hula-hoop giravano da soli, ma quella è un’altra storia…

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Quali sono secondo te i registi più significativi del New Horror americano?

Mio Dio… Non so… Direi George Romero, io, Wes Craven, John Carpenter e Joe Dante. Anche Guillermo del Toro è fantastico; se non avete visto La spina del diavolo (El espinazo del diablo, 2001) dovete vederlo. Guillermo è una persona adulta, ma ha visto le cose con occhi da bambino; lui aveva davvero paura di notte, e ci si è confrontato: ha affrontato le sue paure. Poi Sam Raimi, sicuramente, e David Cronenberg, anche se Cronenberg si allontana di più perché in lui il male è più assertivo che nella maggior parte dei film di genere. Ma sono tutti brutti incubi in un certo senso, quindi sicuramente Cronenberg è da inserire. E c’è un nuovo gruppo. Di tanto in tanto facciamo delle cene, noi registi di horror, e l’altra sera c’era questa cena con dei registi che stanno facendosi le ossa adesso nel genere: Lucky McKee, il tipo che ha fatto Donnie Darko (Richard Kelly, ndr), Don Coscarelli, che ha fatto un film, Bubba-Ho-tep, (2002) che è fantastico, su Elvis Presley e la mummia, completamente folle ma meraviglioso. E Dario Argento. Oggi poi c’è Kurosawa Kyioshi, lo conosco personalmente, quello che ha fatto Pulse (2001), che Wes Craven vorrebbe tanto rifare…

(Los Angeles, 2008)