Intervista a Fabrizio Ferracane

L'importanza della corruzione

Fabrizio Ferracane è tra i protagonisti del film di Claudio Cupellini La terra dei figli, in un ruolo molto particolare, che va visto e non lo si può descrivere. Fabrizio ha un lunghissimo curriculum, tra lavori per la televisione e per il cinema. Molti lo ricorderanno certamente nella parte di Pippo Calò in Il traditore di Bellocchio o come capo dei Beneandanti in Non mi uccidere di Andrea De Sica. Ferracane, siciliano doc, classe 1975, ha un talento nel delinerare personaggi sinistri, equivoci, ambigui. Cattivi sì, ma sempre con qualcosa in più. In questa conversazione mi ha rivelato la sua ricetta per dare vita a caratteri intensi. E mi ha parlato del potere della corruzione, un concetto estremamente affascinante…

Allora, Fabrizio, ora ti vediamo nel film tratto dalla graphici novel di Gipi, La terra dei figli, per la regia di Claudio Cupellini. A me piace molto la prima parte del film, quella in cui il tuo personaggio, Aringo, è sugli scudi…

Sì, film parte proprio bene, ti intriga, nel rapporto tra padre e figlio c’è “ciccia”. Poi c’è Aringo, il mio personaggio. Poi il padre muore… Cioè, il film comincia in modo tale che lo attenzioni, gli tieni gli occhi addosso. Bello anche il viaggio del ragazzo, fino a che arriva ai due fratelli Testagrassa.

Sì, sono d’accordo. Poi diventa un po’ più meditativo… Ma ti ripeto: gli scambi di dialogo che hai con il padre, con Pierobon, sono notevoli. Cupellini lo conoscevo da Gomorra e ha la mano, si vede. Poi le musiche sono molto belle: quel canto, quando il ragazzino vaga tra le macchine distrutte…

Sai chi le ha fatte? Motta, il cantante Motta. E sono belle musiche davvero.

Dove l’avete girato il film?

A Chioggia, di base stavamo lì. Era tutta la zona del delta del Po, quei luoghi.

L’ambientazione è bella, infatti…

Wow! Ma ci siamo fatti un bel mazzo, guarda. Quello che va sott’acqua sono veramente io, lo sai? La morte di Aringo è veramente una cosa cui tengo moltissimo.

Eh, raccontami un po’ di questa scena in cui ti appendono per i piedi e ti mettono in ammollo…

Quando in lettura di sceneggiatura c’era questa situazione, Claudio me l’ha buttata lì, dicendomi: «Vabbè, questa la fai tu…». E io gli ho risposto che ci avrei provato. Io salito sul set tre o quattro giorni prima, e siamo andati a fare questa prova con gli stunt. E loro sono stati bastardelli (ride) ma anche furbi. Perché due giorni prima o un giorno prima, non mi hanno fatto entrare in acqua, durante le prove. Appena la corda si metteva in trazione, hanno contato un minuto e venti secondi a testa in giù, in cui io provavo anche le battute. A un certo punto, dopo un minuto e venti, mi dicevano che andava più che bene. Poi, lì vicino c’era la barchetta con i ragazzi che mi prendevano e io mi riposavo un po’. In un minuto e venti, se ne possono fare di cose. Se vedi il film, noti che la prima volta che mi tira su dall’acqua, faccio un verso strano con la voce (ride), ma perché, veramente, mi avevano messo con la testa nell’acqua e l’acqua sotto era gelida! Era la prima volta e stavamo girando! Sarei stato stupido a dire: «Oh, ma che cazzo fate?», sai come farebbero magari gli attori un po’… E quindi ne ho approfittato, e salendo su, ho fatto quel verso, che è rimasto nel film e che è molto vero (ride): «Oh, oh… Porca…» e poi sono andato di battuta. L’ho fatta tre o quattro volte, la scena, ma è davvero una situazione stranissima, stare a testa in giù legato, entrare e uscire dall’acqua, dopo tre o quattro volte… è strano. C’era il rischio di essere preso dal panico e poi faceva veramente molto freddo. Certo, loro erano lì accanto con la barchetta e con le coperte calde pronte. Perché poi dovevano cambiare punto macchina eccetera. Così ho detto a Claudio che se potevamo farne parecchie di seguito, per me era meglio. Ma è stato bello perché alla fine, sullo schermo, si vede che sono io che entro in acqua, non è un doppio.

Beh, ma è forse la scena migliore del film…

A me piacciono anche le scene nel fango, perché è una situazione abbastanza particolare. Anche il ragazzo che litiga col cane all’inizio. A me questo genere di film affascina…

I postatomici dici, i film che prefigurano il dopo catastrofe…

Sì, anche perché mi capita spesso di pensare a cosa succederebbe se la civiltà, per una ragione o per l’altra, crollasse. Dopo, che succederebbe?

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Parliamo di Aringo, il tuo personaggio. Come ci hai lavorato? E come lavori in genere quando devi entrare nella pelle di un carattere?

Quando mi hanno chiamato per il provino, che è stato, tra l’altro, uno dei provini più belli della mia vita… E quando un attore conserva una buona memoria di quello che ha fatto nel provino, allora significa che si è divertito molto. Prima del provino, Claudio Cupellini mi aveva fatto vedere degli storyboards, dei disegni dei costumi, tutta una serie di cose. E mi disse che saremmo andati vicino Venezia a girare. Fu un attimo, guarda. Nel senso che ho avuto l’istinto…. Ho chiesto di poter stare un minuto da solo. Io il provino l’avevo già un po’ preparato, ma senza nessuna inflessione nel modo di parlare del personaggio. Ma nel momento in cui mi disse che avremmo girato dalle parti di Venezia, forse perché ho un amico che ha una erre un po’ così, un po’ strana, io lì ho avuto questo flash e quindi la teatralità del mio personaggio che però, al cinema, lungi da me, mai! Perché il mio must è “verità”, la verità, totale e più assoluta… però parlare in questo modo (parla come Aringo nel film, ndr). Mi è venuto da pensare a un ubriacone, qualcuno con gli occhi arrossati dal vino, con una ubriacatura, ma ferma, statica. E quindi, durante il provino, mi sono messo in queste coordinate, cercando di mantenere la parlata con questa erre particolare, con una voce un po’ da fumatore. Sai, è una cosa strana, che forse non ho mai detto a nessuno: a volte succede che la faccia della persona che io mi immagino e che devo interpretare, è come se la andassi a mettere sopra la mia. L’immagine di questa persona che sto visualizzando mi fa cambiare anche le movenze, il modo di camminare. E quindi posso immagine che un Aringo, con questa voce, con questa ubriacatura negli occhi, possa avere una camminata strana perché il freddo di quei posti gli fa incurvare le spalle. A questa immagine che mi vedo di fronte, è come se poco a poco ci entrassi dentro. Non so se riesco a rendere questa idea….

Sei preciso. E te lo avrei domandato, perché, infatti, il modo in cui parli nel film, è una cosa che colpisce e arriva diretta. Senti che è giusto che quel personaggio parli in quel modo…

Sì, io non so esattamente dove abbiamo questa “erre” un po’ così, ma da qualche parte nel Nord ce l’hanno. Poi, non lo volevo proprio localizzare. L’importante per me era avere in testa questa roba, questa modalità, così. Non potevo pensare di recitarle normalmente, con la mia voce e basta, battute tipo: “Dov’è tuo padre?”; oppure “Prima il cane e poi le bombe…”. Non doveva essere solo la mia voce, doveva essere un’altra cosa. Anche perché, e questa è una cosa che dico sempre, l’attore si deve corrompere. L’attore è corruzione. Cioè, io lì non devo essere Fabrizio che parla. Ma è normale: uno fa dei personaggi e si mette dei colori addosso, si mette un modo di fare. Cioè, si deve assolutamente corrompere. E forse, tra i miei personaggi fatti finora, in Anime nere o nel film di Taviani che ancora deve uscire, Aringo è quello dove mi sono più corrotto. Anche quando le vediamo stendere le cose, mentre guarda in aria, e parla da solo… Mi è piaciuto tantissimo fare Aringo, tantissimo. E quando abbiamo finito il provino con Claudio, lui era esaltatissimo. Mi ricordo che c’era anche il casting, Davide Zurlo, straordinario, che era entusiasta. Davvero uno dei provini più belli che ho fatto.

In che misura accade che questi apporti dell’attore, perché queste cose arrivano da te, le hai aggiunte tu, con le riflessioni che mi hai appena detto, vengano accolti dal regista, accettati? Oppure capita più spesso che il regista abbia sue idee e non transiga? Cupellini mi pare di capire sia stato molto collaborativo in questo senso, molto aperto…

Guarda, accade sia in un modo sia nell’altro. Per esempio, su Anime nere, con Francesco Munzi, quando mi invitò ad andare due mesi prima del film in Calabria, per vedere i luoghi e le persone che vivevano lì, abbiamo avuto molto più tempo per preparare i personaggi. Io gli feci una proposta che gli piacque subito, arricchita con sguardi, con movimenti. Quindi, lì abbiamo avuto più tempo per studiare i dettagli. Però sì, capita anche che magari fai una cosa in maniera troppo accentuata e il regista ti dice che la vuole più tenue. Per esempio, un regista che dirige molto… ma tutti dirigono, anche se in verità ci sono quelli che parlano poco sul set… è stato Andrea De Sica, che scena per scena, in Non mi uccidere, dedicava veramente molto tempo al lavoro degli attori, che diceva agli assistenti: «Prendetevi i tempi per le vostre cose, però poi io voglio sei, sette minuti per stare con gli attori prima di girare e gli attori non devono essere disturbati». Sai, dipende anche da come si ha in mente il personaggio, magari tu lo vedi in maniera diversa e il regista che lo ha pensato e lo ha scritto dice no alla tua proposta.

Una domanda da un milione di dollari: cinema o televisione?

Subito così d’impatto, ti dico cinema. Ma dipende anche dai progetti. Perché anche fiction televisive di buon livello ultimamente se ne sono viste. Poi, devo dire che con i canali Netflix e cose così, il livello si sta alzando.

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Ma sono sistemi diversi o no? Visti dall’interno, intendo…

L’atto in sé, la ripetizione, le cose da fare, intendo trucco, parrucco, il set, i microfoni, la macchina da presa, tutto è uguale, ovviamente. Certo, se poi hai una produzione che deve fare un film per il cinema in quattro settimane, cinque settimane, è normale che il regista e la produzione siano costretti a girare otto scene al giorno. Otto scene al giorno, appunto, è il meccanismo di una serie televisiva, di una fiction. Se si ha la fortuna, come io l’ho avuta, di lavorare con persone come Francesco Munzi, con il quale, o si faceva come voleva lui o non si faceva… per i primi venticinque giorni, anzi, noi giravamo una scena al giorno. Allora sì, quello è cinema, hai la delicatezza, curi tutto fin nei minimi particolari e quindi stai facendo una cosa che è per il cinema, che ha uno spessore. Sul Traditore, i programmi erano quelli ma Marco Bellocchio lo diceva sempre: «Noi arriviamo fin dove arriviamo. Se a me una cosa non piace, staremo qui a ripeterla. E poi si troverà un modo». In televisione, i tempi sono sicuramente molto più veloci. Però, ultimamente ho fatto pure un’altra commedia, dove il regista, tra una prova girata, la prima o la seconda, si ferma lì. Io sono tendenzialmente d’accordo su questa metodologia. La prima e la seconda sono quelle dove io do tutto me stesso. Se ne faccio cinque, sette, otto, nove, poi qualcosa la perdo sicuramente. Invece, se noi si fa una prova girata e poi giriamo con la giusta tensione che ti deve dare il regista, anche da come viene chiamata un’azione, hai il mood e il respiro più intensi. Però, appunto, al regista Alessandro Bondi, in School of mafia, a lui non interessava farne ottanta, diceva che dovevamo concentrarci sulle prime tre, perché sapeva che una di queste sarebbe andata bene. Ed è così, a meno che non ci sia qualche guasto, qualche errore, qualche problema tecnico. Poi, dipende anche da quanti soldi hai a disposizione, è chiaro…

Adesso, quali progetti hai in ballo?

Adesso aspetto veramente un botto di roba! Ho Leonora addio di Paolo Taviani, Ariaferma di Leonardo di Costanzo, con Tony Servillo e Silvio Orlando, L’Arminuta di Giuseppe Bonito, questa storia tratta dal libro di Donatella Di Pietrantonio, con Marisa Scalera, facciamo marito e moglie con queste due bambine, straordinarie, meravigliose, di una bravura. Poi adesso inizio una serie Amazon con Luigi Lo Cascio. Poi ho un paio di date della mia compagnia di teatro. Il teatro continuo a farlo. Ultimamente sto facendo un monologo, su un povero cristo che parla con un prete, rappresentato da un manichino. Cinquanta minuti in un siciliano arcaico. Le ultime volte che l’ho fatto, ho accusato una fatica notevole. Per cui, avevo in mente di fermarmi un po’ con il teatro, però poi l’amore è talmente grande che adesso, al 29 e 30 luglio, abbiamo due date, di due spettacoli diversi: uno è Ferro vecchio e uno è Ora pro nobis, che è questo monologo di cui ti dicevo. E poi proprio in questi giorni, mi è arrivata la proposta di Regalo di Natale, un testo tratto dal film di Pupi Avati, della Pirandelliana. E mi sa che lo farò…