Intervista a Daniel Warren Johnson

Incontro con il disegnatore e sceneggiatore di fumetti, autore di Murder Falcon
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D: Presentati ai lettori di Nocturno

R: Sono Daniel Warren Johnson, disegnatore e sceneggiatore di fumetti, ho realizzato Extremity, Murder Falcon, Space Boy e Ghost Fleet ed è stato da poco annunciato che lavorerò a Wonder Woman, per DC Comics.

D: Murder Falcon punta moltissimo sull’emotività e su uno storytelling molto lineare. Potrebbe sembrare che non ci sia complessità nell’opera ma a una lettura più attenta si scopre che non è così. Cosa ne pensi?

R: Quando ho iniziato a lavorarci, Murder Falcon era solo un nome. Un nome cazzuto, molto heavy metal, sapevo che sarebbe stato pieno di mostri e di musica. Cercavo solo di capire quali fossero gli elementi di scrittura adatti a rendere l’intensità emotiva che volevo trasmettere. E’ stato un vero e proprio viaggio, questo percorso che mi ha portato a capire come mescolare le scene d’azione intense con l’impatto emotivo. La parte facile è stata tutta la parte cazzuta, il difficile è stato farci entrare i sentimenti. Come in ogni progetto, provi a capire cosa vogliono i personaggi, i loro sogni, le loro ambizioni. E’ stata una sfida.

D: C’è questo effetto fucile a pompa, carichi tutto a pressione per poi sparare una bordata di emozioni nella pancia del lettore.

R: Non è la prima volta che me lo dicono. Di solito cominciano con “Wow!”, poi continuano con “Oh… questo sì che è triste…”

D: In Murder Falcon c’è qualcosa del modo profondo e viscerale che i metallari hanno di vivere la loro musica, un sentire che va oltre la passione, è uno stile di vita.

R: E’ molto chiaro nel fumetto che Jake, il protagonista ha una grande passione per il metal. Ho cercato di rendere l’impatto positivo che l’heavy metal ha avuto sulla mia vita quando ero giovane. Murder Falcon è interamente basato sul rendere sotto forma di fumetto il modo in cui io sento l’heavy metal, credo che si veda molto in Jake.

D: Mi pare ci sia una sorta di legame fra Extremity e Murder Falcon, un filo rosso che unisce l’arte e la lotta, come se l’arte fosse un modo di combattere ciò che il mondo ci tira addosso, un modo di reagire.

R: Questa è una buona osservazione. Credo che per buona parte di ciò sia dovuta al fatto che disegno e suono la chitarra. Non sono mai stato bravo negli sport e nell’attività fisica. Il mio modo di elaborare i problemi è attraverso il disegno e la musica. Per dare ai personaggi un legame con l’arte è quasi un riflesso condizionato, oltre che una strategia per caratterizzarli. Se hanno un interesse, un hobby, appaiono subito più veri, più convincenti per il lettore e per me. Si tratta di mostrare qualcosa che vada oltre il loro look, e in questo senso l’arte funziona molto bene.

D: Quando ti rivolgi ai tuoi lettori credi di trasmettere un messaggio in questo senso? Stai cercando di comunicare l’importanza dell’arte e di coltivare una certa sensibilità?

R: Lo spero. Ho realizzato questi libri perché li sentivo miei e ne sentivo il bisogno, e il fatto che abbiano toccato tante persone per me è una specie di magia. L’obiettivo non era necessariamente raggiungere qualcuno, faccio fumetti soprattutto perché me lo sento ma se raggiungo qualcuno è meraviglioso. Ho creato i miei fumetti perché pensavo “Wow, vorrei proprio leggere una cosa del genere”.

D: Quando lavori ai tuoi personaggi cerchi di tirar fuori non tanto l’essere umano dietro l’eroe, ma l’umanità che li caratterizza. I tuoi personaggi sono profondamente umani e muoiono, non solo in battaglia, hanno le loro debolezze sia a livello emotivo sia a livello fisico, molto concreto.

R: Esatto. Più ti tiri indietro, più proteggi i tuoi personaggi e minore sarà l’impatto emotivo che avrai sul lettore. Il punto è che tutti moriamo e dobbiamo farcene una ragione. Trovo il fatto che i personaggi facciano i conti con questo molto potente, è l’ordine naturale delle cose. La vita finisce così come finiscono le storie. Forse sto cercando di elaborare la mia vita attraverso i fumetti.

D: Quali sono le tue fonti d’ispirazione, come disegnatore?

R: Mi ispiro moltissimo ai manga. Se devo darti un esempio specifico il Masamune Shirow di Appleseed e Ghost in the Shell ha avuto su di me un’enorme influenza. Anche Katsushiro Otomo, il creatore di Akira, come molti altri mangaka old school. Amo il caos di Jack Kirby, l’approccio raffazzonato di Walt Simonson e la sua run di Thor, un fumetto molto strano disegnato in fretta, molto sotto alla deadline, e si vede. Vedere il lato umano dei maestri mi ha insegnato a non essere troppo severo con me stesso.

D: Il tuo tratto mi ricorda un tratto mi ricorda Geof Darrow fatto di cocaina. Molto dettagliato, appariscente eppure molto dinamico, laddove Geof Darrow è un grande illustratore ma è molto statico. Ti ci rivedi?

R: Certamente. Ammiro la cura di Darrow per i dettagli, è davvero bravo. Cerco di prendere il suo gusto per i dettagli e di mischiarlo al dinamismo dei manga, con tutte quelle linee cinetiche. Mescolare tutto insieme è molto entusiasmante.

D: Abbiamo parlato di heavy metal e a tal proposito, parlando di Extremity, vedo che prendi molto dagli anni ’80, per esempio il topos del misfit con una sensibilità artistica che diventa un eroe ma lo elabori secondo la tua sensibilità personale. Cosa pensi del fatto che le nostre generazioni vivono nel mito dell’immaginario di quegli anni e non sembrano in grado di avere un’idea originale?

R: Ci ispiriamo alle cose che amiamo, semplicemente perché le amiamo. Creare arte nel vuoto non è possibile, abbiamo sempre bisogno di qualcosa a cui guardare. Fino a che un artista inserisce qualcosa di sé stesso nell’omaggio che fa ai suoi predecessori, si evolverà sempre in qualcosa di nuovo. Creare qualcosa che nessuno ha mai visto richiede un lungo percorso.