Incontro con Sergio Stivaletti

Lo scrittore, regista e effettista, Sergio Stivaletti, discute di creatività, del suo passato e di ciò che lo inspira
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Il professionista degli effetti speciali”, per il cinema, la televisione, il teatro, ma anche regista ,sceneggiatore, illustratore … Un grande creativo, che a tutt’oggi, nonostante siano trascorsi più di trent’anni dai suoi esordi, non ha perso la voglia di stupirci e di sorprenderci.

Esplorare l’ignoto che è dentro di noi, significa attraversare il mare magnum della nostra esistenza, è lì che trova la sua fonte d’ispirazione?

Sergio Stivaletti: Gran parte della nostra ispirazione, qualunque sia la forma d’arte, parte da dentro di noi. É l’espressione del nostro vissuto, una commistione di tutto ciò che abbiamo conosciuto e appreso, la nostra cultura ed educazione. Da piccolo ad esempio sono stato ispirato dalle illustrazioni della Divina Commedia di Dante, di Gustave Doré. Nella mia casa si respirava arte, mia nonna pittrice, mia madre artista sperimentatrice, mio padre tecnico di effetti speciali.

Come alimenta la sua creatività?

SS: L’alimento in vario modo e nei momenti più inaspettati, perché ogni momento può lasciare una traccia. Vado spesso al cinema, dove guardo specialmente film fantastici. Tra i pittori a cui mi sono ispirato c’è Hieronymus Bosch, penso al Trittico del ”Giardino delle delizie” o ai “Sette peccati capitali”. Sono affascinato anche dalla natura e dai suoi dettagli, colori, atmosfere, calamità, ma anche dagli animali e dai loro comportamenti. Tutto ciò alle volte, supera abbondantemente la fantasia.

Quando costruisce i suoi artefatti, lascia spazio al suo intuito o segue pedissequamente le linee tracciate dalla scrittura?

SS: La scrittura, direi che tratteggia delle linee guida, ma il lavoro degli effetti speciali viaggia seguendo un suo personale percorso. Questo consente a chi ne è l’autore di esprimersi liberamente e di spaziare dal digitale all’ effetto costruito, lasciando quello che potrebbe essere definito il suo stile o marchio di fabbrica.

È ispirato dai reali eventi che accadono ?

SS: Non mi soffermo molto sulla realtà, preferisco trovare sfogo nell’onirico. Viaggiare all’interno del proprio io è come viaggiare nello spazio. Nell’ultimo film Rabbia furiosa – er canaro sono invece partito da un violento fatto di cronaca.

Partendo da quest’ultimo film che la vede impegnato come regista. Qual è il messaggio, che attraversando la crudeltà narrativa, la forte e pregnante espressione estetica, ha voluto lasciare, attraverso il racconto del suo film?

SS: Non ho un messaggio verbale da lasciare. Voglio solo suscitare delle emozioni, perché lo spettatore che guarda deve sentirsi tormentato. Mai sentirsi arrivati nel mio lavoro, bisogna sempre mettersi in gioco e sperimentare cose nuove. Forse il problema attuale è che non ci meravigliamo più di niente, siamo abituati ad immagini forti e le vediamo spesso e in ogni momento della giornata. Si utilizzano poi, molto di più gli effetti digitali, per cui un film richiede molto meno lavoro, rispetto agli effetti fatti con la macchina da presa.

Cosa pensa della morte?

SS: La morte è un tunnel da esplorare. Sono uno studioso dell’argomento, tanto da aver partecipato ad uno degli episodi del regista Luigi Pastore: Prepararsi alla morte, dal titolo: Sergio Stivaletti e la morte nel Cinema. Provengo da una famiglia cattolica e anch’io lo sono, benché non sia praticante. Leggo e ricerco molto, perché ritengo che quello della morte sia il viaggio più straordinario, perché ci proietta nell’infinito.

Cosa le ha lasciato la prima edizione dell’AHIFF?

SS: È stata una bella esperienza, anche il luogo, Gallipoli, città di mare, molto suggestivo, un dentro e un fuori in netto contrasto. Ho visto tanti giovani e tanta voglia di fare. Tanto entusiasmo che se alimentato porterà a grandi risultati, dunque la parola chiave con la quale sento di dover concludere è: ” Speranza “