Incontro con Davide Di Giorgio all’AHIFF

Il giornalista, scrittore e critico cinematografico, commenta brevemente l'horror e lo stato dell' industria.
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Davide Di Giorgio, classe 1975, vive a Taranto, è giornalista pubblicista e critico cinematografico. Ha scritto di cinema e di animazione giapponese per Rumore, Onda Tv, Cartoni e Suono, collabora con le riviste Film D’Autore (della Fondazione Apulia Film Commission) e Pointblank.it ed è redattore di Il Ragazzo Selvaggio e DVDWeb.it. Per il webmagazine Sentieri Selvaggi cura una rubrica sull’animazione giapponese.

Cosa pensa di questa prima edizione dell’Apulia Horror IFF?

Davide Di Giorgio: In questo caso mi considero uno spettatore “potenziale”, avendo partecipato soltanto alla parte pre-festivaliera leccese e non a quella a Gallipoli: pertanto mi è difficile entrare nel merito delle scelte fatte, posso comunque aggiungere che il riscontro alla giornata dedicata a Mario Bava mi pare sia stato molto positivo. Allargando le considerazioni, credo che la possibilità di un ulteriore spazio dedicato all’horror sia senz’altro degna di nota, i direttori Francesco Corchia e Andrea Cavalera sono ben determinati a portare avanti il progetto e abbiamo iniziato anche a prospettare delle sinergie con il festival che dirigo io a Taranto (Monsters). Resta perciò importante creare dei momenti di aggregazione in cui fermarsi a riflettere sullo stato delle cose nel cinema contemporaneo, soprattutto quando si ha a che fare con generi così radicati nell’immaginario e nella passione del pubblico giovane come l’horror, ancora molto sottovalutato nella sua autentica portata culturale. Ecco dunque che realtà come Apulia Horror IFF vanno nella direzione giusta.

Crede che il genere horror attualmente racconti qualcosa di nuovo?

DDG: La sottovalutazione del genere inizia spesso da chi lo fa e in questo momento storico assistiamo a una visibilità maggiore per format riconducibili a esigenze industriali, legati cioè a riproposizioni di formule vecchie o alla creazione di saghe secondo i modelli dominanti nel cinema mainstream. Quindi remake di vecchie pellicole, o “universi”, anche piacevoli nella loro articolazione, ma logorati da una certa ripetitività, tanto per essere chiari. C’è comunque ancora molto fermento, ma un po’ come accade in tutto il cinema contemporaneo bisogna letteralmente andarlo a cercare. Ci sono realtà distributive che in Italia lo fanno, penso a editori come Midnight Factory, Movies Inspired, Eagle Pictures e in parte anche Opium Visions, Shockproof e Home Movies per il solo home video: naturalmente è importante che il pubblico supporti le loro iniziative ed ecco che le realtà festivaliere possono ancora giocare un ruolo molto importante, proprio per la loro portata aggregante e per l’interazione diretta fra autori e pubblico.

È davvero un modo per esorcizzare l’angoscia esistenziale o ci intrappola in essa?

DDG: L’horror è qualcosa di più di un semplice genere, è una visione del mondo e come tale offre prospettive multiple e sfaccettate: riesce perciò a essere sia un modo per toccare i nervi scoperti della società nei vari momenti storici interessati dalle varie opere, sia a costruire un immaginario in cui avvolgersi secondo una logica anche ludica. Personalmente è questo l’aspetto che mi ha sempre affascinato, la capacità di foraggiare l’immaginazione, stimolare la creatività… Sam Raimi una volta disse che con i suoi film cercava di esprimere la sua personale idea del bello, credo sia la definizione più calzante. In questo senso non credo che l’horror intrappoli nell’angoscia, ma al contrario riesca a liberarla e lasciarla andare, ovviamente quanto più le opere riescono a essere creative, originali e non legate a facili formule o logiche industriali.