In un tempo sospeso: Lei mi parla ancora

Appunti, riflessioni e suggestioni dal set del film di Pupi Avati
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L’aggettivo che riesce a riassumere l’approccio recitativo di Renato Pozzetto, nei giorni delle riprese in una Cinecittà sospesa fra il timore del virus e l’impellenza di procedere, riesce a intuirlo un suo giovane collega. Nicola Nocella, scrupoloso nell’introdurre il disilluso editor Amicangelo (Fabrizio Gifuni) nella residenza dell’anziano signore, lo sussurra durante un cambio inquadratura. Renato Pozzetto è lunare. Come non mai, durante le scene che precedono il funerale della donna della sua vita, quando resta in balia degli eventi. Con l’abito appena stirato ma l’animo colmo di una disperazione che ormai non conosce parole. Nella tensione che lo tiene in bilico fra l’ostinazione e il crollo, mentre i due figli discutono sulla possibilità che segua il feretro. Per poi assistere alla dolorosa rassegna di chi aveva anche solo sfiorato il nume prezioso della sua Rina (Stefania Sandrelli). Il dolore degli altri. Quella vita, prima della tragedia, che sulla scia del secolo breve era trascorsa raccogliendo e conservando la bellezza. Eleggendola a pura consolazione dello sguardo. Facendone, infine, l’unica dimensione possibile presso la quale Rina avrebbe potuto ricongiungersi con l’Assoluto. In eterna comunione con l’arte. Lunare come il Peter Sellers di Oltre il Giardino. L’interprete natio di Laveno Mombello affronta da protagonista Lei mi parla ancora, il nuovo film di Pupi Avati ispirato al testo autobiografico di Giuseppe “Nino” Sgarbi, ripercorrendo intimamente tutte le più profonde corrispondenze col suo passato. Ed è proprio grazie a questo incontro col regista bolognese, rimandato a distanza di quasi sedici anni dalla prima e sfumata occasione, che l’anziano “ragazzo di campagna” cerca finalmente il suo posto delle fragole. Una nuova voce. Lo fa schivando ogni reticenze, nel tempo sospeso della breve tregua estiva concessa dalla pandemia a ciò che è stato il presente. Anche attraverso quelle ritualità tipiche dei set che il virus ha ridotto subitaneamente all’osso. L’ambiente del suo motorhome è climatizzato al punto che per restarci è d’obbligo il pullover. A pranzo non può mancare il formaggio fresco ed un decaffeinato con il dolcificate e appena una goccia di latte. Per poi tornare sul set fra mascherine, termo-scanner ad infrarossi e distanziamento sociale. Sono i “gesti bianchi” del Covid che l’intera troupe, avendo come arbitri ben due e onnipresenti addetti, ha imparato a rispettare e compiere. Anche seguendo attentamente le notizie dagli altri set. Tirando un sospiro di sollievo dinnanzi ai risultati dello screening sierologico settimanale.

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Al termine della pausa pranzo, Renato Pozzetto ha qualche minuto per raccontare ciò che fu l’Ufficio Facce. Un gioco della sua giovinezza alla pasticceria Gattullo, paradiso gastronomico meneghino il cui triplo special entrò nel mito grazie a Beppe Viola, dove un vero e proprio consiglio di amministrazione decideva i destini in base ai tratti somatici. Si espressero incontrovertibilmente sul destino dei fidanzamenti e delle amicizie, dei clienti ai quali accordare l’utilizzo incondizionato della toilette fino alle formazioni calcistiche. In un momento nel quale gli estranei e gli amici avevano “perso la faccia”, nell’utilizzo dei vari dispositivi di protezione, ascoltare il ricordo di quella burla da bar ci ha resi partecipi di una nitida nostalgia. Anche la realtà della pandemia, inesorabilmente, si è insinuata nella porosità tipica della finzione cinematografica. Lo ha fatto sfruttando quel misterioso spiraglio, lasciato aperto in un punto ogni volta non precisato della lavorazione, che sovente permette a un acquazzone di vanificare la coreografia di un ballo o ad un herpes di dover rimandare un primissimo piano. Nel nostro caso, soprattutto nelle scene del tempo presente, il cruccio più grande ha coinvolto tutte quelle inquadrature larghe nelle quali rientrava un passante ignaro ma dalla mascherina vistosa. Avremmo mai permesso al Covid di sconfinare, fino ad invadere la cronaca di una storia d’amore capace di sfidare le barriere del tempo? Sarebbe stato questo l’alieno da tenere ad ogni costo fuori dal set, escludendolo volontariamente dal perimetro della narrazione meglio di quanto era stato possibile nella vita reale. Il livello di difficoltà si alza esponenzialmente nei pressi della stazione Termini, seguendo i viaggi di Amicangelo dalla capitale alla villa nella provincia ferrarese. Il difficile divenne quasi nulla, di contro, in un quartiere dell’Eur completamente calato nel silenzio irreale di fine Luglio. È quasi d’obbligo pensare all’iconico film qui ambientato con Vincent Price, così come è impossibile non sottolineare le amare analogie epidemiche e con esse tutti gli altri brandelli di impalpabile fantascienza tramutatisi improvvisamente in grandine. Il virus ci ha negato la possibilità di pranzare insieme e di scambiare due parole senza prima contarci e distanziarci. Impossibile stare troppo tempo in una stanza senza disinfettarsi nervosamente le mani con l’apposito gel. La sartoria ha i ritmi e le precauzioni dell’accettazione di un pronto soccorso. La sala trucco – fra face-shield, guanti in lattice, spray igienizzanti ed FFP2 – può considerarsi a tutti gli effetti la camera operatoria del film. Tutto ciò, dopo un’iniziale e bambinesca curiosità, cede il passo allo sconforto per tutto ciò che la pandemia ha tolto ad un mestiere che pone le relazioni umane al primissimo posto. Chiara Caselli, nel ruolo della figlia di Nino e Rina, dopo la vestizione chiede qualche minuto per poter visitare gli interni dell’elegante casa editrice, la “nave” che nel gioco di riflessi della sceneggiatura governa con rigore e talento. Viene scortata da un addetto della produzione e dall’immancabile supervisore Covid. C’è tutto il tempo.

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A pochi metri di distanza dal campo-base e dal secondo set, Avati è con il resto della troupe negli interni di un clinica privata di Via Eufrate. Al temine di quella sequenza, una volta fuori dall’ambiente, Pupi Avati ci regala l’ideale salvacondotto per superare la giornata. Riconosce la strada in cui viveva Pier Paolo Pasolini negli anni della stesura di Salò o le 120 giornate di sodoma. Il luogo in cui si era recato portando il libro proibito del marchese De Sade, in un’edizione corsara che negli Anni ’70 era reperibile solo sulle bancarelle di Piazza Esedra. Avati raggiunge, dopo pochi passi, il numero civico nove. Seguendolo e ascoltandolo, quasi che il regista bolognese ci avesse accompagnati tenendoci per mano, ritroviamo tutti i ricordi: il rumore della carta graffiata dal pennino del poeta, la sensazione di addentrarsi nell’intrico di una selva sempre più oscura e la voce rassicurante di una madre che chiedeva con innocenza cosa preferissero per cena. Condividendo quel ricordo, ritrovando anch’egli un luogo posto sensibilmente al di là del tempo, Avati è riuscito a farci rivivere ciò che nel passato riposa inquieto fra il mito e la ragione. Gli odori e i rumori della cucina ed il continuo lavorio delle idee nella stanza accanto. Dunque era questa era la chiave. Avevamo trovato la bussola per orientarci. È con quest’animo che dopo i giorni di Cinecittà, dove in teatro era stata ricostruita buona parte degli interni della villa, vengono ultimati esterni romani e si giunge presso la vera residenza di Nino Sgarbi. I “gesti bianchi” del Covid hanno ammansito una troupe abituata ad incedere verso i traguardi con passi da pachiderma. Sostare fra le mura di quella mirabile wunderkammer è quasi un atto di equilibrismo. Che diviene virtù nel posizionare gli stativi ed orientare i proiettori, nel cercare di non invadere in alcun modo quello che l’intera troupe percepisce quale esatto confine fra la realtà e la finzione. La linea di demarcazione fra quanto ricostruito in studio e tutto ciò che ancora restituisce la presenza di Nino. Lei mi parla ancora è colmo di vita. Inconfutabilmente avatiano, nella scelta di narrare l’esistenza di Nino attraverso la stesura del libro, già in sceneggiatura rivelava specifici aspetti della poetica del regista. Il costante dialogo di Nino con l’Aldilà, percepibile nella familiare dimensione dell’Orto dei Morti, propiziato dall’onirico palesarsi di Bruno (Alessandro Haber) nei momenti topici della vicenda. L’Avati più “memorioso” mette qui in pratica, partendo da quelle reminiscenze di Nino che non sono mai un filtro ma anzi dei sublimi amplificatori, gli schemi del suo cinema più sensibile. Il Nino interpretato da Renato Pozzetto è un imperatore d’inverno, come lo fu il personaggio più singolarmente poetico di Noi tre (1984), dedito alla ricerca notturna di un segno dell’amata fra i dipinti della casa. Finestre spalancate su di una bellezza nella quale è lecito far viaggiare lo sguardo e ricercare, trovando ogni volta nuovi indizi, ciò che di più caro è stato smarrito. Insieme con il suo narratore, che ad Amicangelo rivela la strada impervia della manutenzione dei sentimenti, è l’intero Novecento a sedersi e dialogare con i suoi figli. Insegnando loro la necessità di tornare a fare e mantenere le promesse.

Lei mi parla ancora andrà in onda in esclusiva, a partire dall’8 Febbraio, su Sky Cinema e sulla piattaforma streaming NowTv!